ROMA, venerdì, 18 settembre 2009 (ZENIT.org).- Questo venerdì gran parte dei mezzi di comunicazione ha…
“AVEVO FAME E MI AVETE DATO DA MANGIARE,
AVEVO SETE E MI AVETE DATO DA BERE…”
Un cavillo procedurale basta alla Corte di Cassazione per confermare la terribile sentenza sulla giovane donna .
di Viviana Daloiso
«Le parole “rimuovere il sondino dell’alimentazione” sembrano preludere a un’azione innocua. Non è così. Io e i miei genitori abbiamo visto morire Terri lentamente, di un’agonia atroce, le labbra spaccate dalla mancanza d’acqua, il corpo devastato dall’inedia». La notizia della sentenza su Eluana, che è arrivata in questi giorni anche nella sede della Terri Schiavo Foundation, a Saint Petersburg in Florida, ha scosso il fratello della donna, Bobby Schindler. Che, con la sorella minore Suzanne, dal 2005 è mobilitato sul fronte dei diritti delle persone che versano nelle condizioni di Terri. E che lancia un appello a Beppino Englaro: «Eluana ha il diritto di vivere».
Signor Schindler, lei e la sua famiglia siete a conoscenza di quello che sta succedendo in Italia in merito alla vicenda di Eluana Englaro?
Sì, abbiamo saputo tutto qualche giorno fa e come abbiamo scritto sul sito e nella newsletter della fondazione dedicata a mia sorella, siamo convinti che la decisione del tribunale italiano indichi come l’”etica medica” americana, che ha voluto la morte della nostra cara Terri, si stia diffondendo come un virus nella comunità internazionale, arrivando a minacciare non soltanto le persone in stato vegetativo, ma anche quelle più deboli in senso lato: i disabili, gli anziani, le persone reputate in qualche modo “imperfette” nella rigida concezione che questa stessa etica si è data. È una deriva spaventosa, che va fermata al più presto.
Parliamo della vicenda di sua sorella. Provi a descrivere le sensazioni che ha provato quando è stata emessa la sentenza definitiva, e gli è stato staccato il sondino che la alimentava.
Fin dall’inizio della vicenda di Terri, l’unico desiderio che io e i miei genitori abbiamo espresso è stato quello di portarla a casa con noi, di poterci prendere cura di lei. Purtroppo ci siamo scontrati con la decisione ostinata di un giudice della Florida, George Greer, che ha deciso invece che dovesse morire di fame e di sete. Voglio sottolineare questo punto, perché quel giudice decise proprio questo: che mia sorella morisse così, senza cibo e senza acqua, e con la sua famiglia accanto, senza che nessuno di noi potesse alzare un dito per salvarla. Ci veniva impedito persino di passarle qualche cubetto di ghiaccio sulle labbra, letteralmente crepate dalla mancanza d’acqua e sanguinanti. Mi vengono ancora i brividi quando penso che mia mamma e mio papà dovettero assistere a uno spettacolo che nessun genitore dovrebbe mai vedere: la loro amata figlia ammazzata in 14 giorni e in un modo orribile e inumano. C’è anche un’altra cosa.
Prego.
Quel giudice, che per cinque anni si occupò del caso di mia sorella in tribunale e che alla fine l’ha condannata, non la vide mai. Non andò neanche una volta a farle visita.
Crede che sua sorella abbia sofferto? C’era qualche impercettibile movimento, o cambiamento d’espressione, che vi facesse capire che sentiva la vostra vicinanza, e le carezze?
Ce n’erano cento, mille. Terri era talmente viva! Ha saputo parlarci, a modo suo, anche nelle ultime ore della sua vita, quando soffriva in maniera atroce, e forse si chiedeva perché. Soprattutto con nostra madre: con lei aveva un rapporto privilegiato, quando la accarezzava e la teneva stretta, sembrava sorridere, aveva gli occhi pieni di luce. Personalmente, non ho mai nutrito il minimo dubbio che Terri fosse assolutamente consapevole di tutto quello che avveniva attorno a lei. E che abbia sofferto la stessa sofferenza di chiunque di noi fosse affamato a morte: un’agonia impensabile, un’esperienza fisica atroce. Nelle ultime ore della sua vita facevamo fatica persino a guardare quel corpo devastato dall’inedia, mia mamma svenne più volte. Questo va detto, perché le parole “togliere il sondino” dell’alimentazione sembrano preludere a un’azione innocua. Non è così.
Qualcuno sostiene che la vita di un’essere umano ridotto allo stato vegetativo non è più vita, non è degna di essere vissuta. Cosa ne pensa?
Terri aveva avuto un trauma cerebrale profondo, ma non stava morendo. Non era affetta da un male inguaribile, non necessitava di medicine, non era malata, non c’erano dei macchinari che la tenevano in vita. Terri aveva solo bisogno di cibo e acqua per vivere, e della compassione degli altri, della compassione di cui ha bisogno una persona sana che non può mangiare e bere da sola. Non possiamo giustificare che a una persona sia tolto cibo e acqua perché qualcuno nella società ha deciso che così è più “conveniente”. Più conveniente per chi? Quanto alla parola “vegetativo”, mi sono sempre rifiutato di usarla parlando delle condizioni di mia sorella. Mi sembra che utilizzare quel termine sia già un modo di togliere umanità alle persone come mia sorella, ed Eluana. Nel marzo 2004 Giovanni Paolo II ha detto: “Un uomo, anche se malato gravemente o disabile in tutte le sue funzioni, è sempre e sarà sempre un uomo”. Credo a queste parole profondamente.
Cosa si sente di dire al padre di Eluana, Beppino Englaro?
Nessuno come me e i miei genitori conosce la sofferenza di quest’uomo, la profondità delle ferite che incidenti come quelli accaduti a Terri ed Eluana causano nel cuore di chi le ama. Eppure io credo che proprio queste ferite ci chiamano ad essere strumenti. Strumenti d’amore, di speranza. Strumenti di Dio. Se amiamo e ci battiamo per quelli che sono più deboli e fragili, abbiamo la grande occasione di amare e lottare per Dio stesso. Eluana ha diritto di vivere, e diritto che suo padre speri e lotti per lei. Io e i miei genitori pregheremo per lui.
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Un decreto d’urgenza per «salvare Eluana Englaro» e vietare la sospensione di alimentazione e idratazione ai malati terminali e a quelli in stato vegetativo. Lo ha chiesto oggi, al termine del suo XXVIII Convegno nazionale, il Movimento per la Vita.
L’organizzazione, da sempre contro aborto ed eutanasia, ha ribadito «la propria solidarietà e la propria vicinanza» alle suore Misericordine di Lecco che, hanno assistito per i quasi 17 anni di coma Eluana Englaro, definite come le «uniche, tra coloro che sono più vicini alla ragazza, a lottare per la sua vita».
Il movimento per la vita ha anche annunciato «Una giornata di digiuno per condividere la condizione a cui Eluana sarà’ costretta» da effettuarsi il giorno in cui sarà sospesa l’alimentazione alla giovane.
- Caffara: mai togliere acqua e cibo. Si tratta di un’omissione etica. E c’è profilo di omicidio
- Ravasi: la vita va sempre rispettata e difesa, siamo amministratori, non padroni dell’esistenza
- Appello dei Cav a Napolitano: conceda la «grazia». Serve un «atto straordinario» «Scelta pilatesca delle toghe faremo ricorso a Strasburgo»
di Paolo Lambruschi
Forse una speranza c’è ed è contenuta in un appello a Strasburgo per far rispettare il diritto alla vita in Italia. Non si perde certo d’animo Giuliano Dolce, 80 anni, neurologo di fama internazionale, direttore scientifico del «Sant’Anna» di Crotone e presidente dell’associazione di bioetica Vive.
Anzitutto è determinato a denunciare il medico che staccherà il sondino nasogastrico che alimenta Eluana e il direttore sanitario della struttura o dell’Asl che ospiterà la giovane in stato vegetativo «perché negli ospedali pubblici italiani si va per farsi curare, non per venire uccisi». E, insieme a 34 associazioni, annuncia un ricorso alla Corte europea dei diritti umani contro la sentenza che, per la prima volta, autorizza la morte di una cittadina italiana.
Professore, dunque assisteremo nei prossimi giorni a un altro calvario come quello dell’americana Terri Schiavo?
«Precisamente. Si prospetta purtroppo un’agonia lunga perché Eluana è giovane ed è stata assistita bene in questi anni dalle suore di Lecco. Siamo davanti a una situazione paradossale. Questa persona, che oggi vive senza l’aiuto di farmaci e macchinari, può essere uccisa levandole il sondino che la alimenta. Non c’è accanimento terapeutico su di lei, i sanitari infatti la nutrono come è loro dovere. Invece la magistratura italiana, a dispetto delle convenzioni internazionali, ritiene che nutrire una persona al massimo grado di disabilità sia un atto terapeutico e non un atto dovuto. Ora, per non infliggerle le sofferenze della disidratazione, dovranno sedarla, quindi somministrarle farmaci. Si finirà così con il curarla per farla morire “bene”.
Ma questa non è eutanasia, pratica vietata in Italia?
«Sì ed è una forma di eutanasia crudele, per giunta, perché prolungata e praticata su una persona indifesa che potrebbe vivere almeno altri 16 anni in stato vegetativo e non su un malato terminale. Che non ha lasciato neppure un ipotetico testamento biologico, facendo sapere che rinuncia volontariamente a ogni forma di alimentazione».
Eppure Riccio, l’anestesista che ha aiutato a morire Welby, garantisce che non soffrirà, poiché è priva di coscienza…
«E allora ci spieghi perché sedarla e perché i giudici milanesi, nella sentenza dello scorso giugno, hanno prescritto minuziosamente i dettagli da seguire per arrivare alla morte. Già che c’è, questo signore mi spieghi anche come può un medico togliere l’alimentazione a un paziente. Oggi Eluana vive grazie a mille calorie fornitele quotidianamente da un liquido che ha il color del latte e che è ricco di minerali, grassi e zuccheri. Ma se frullassero del cibo e glielo fornissero, potrebbe assumerlo. Morirà di fame e di sete, inutile trovare eufemismi».
Qualche tempo fa alla donna, che oggi ha quasi 38 anni, è tornato il ciclo mestruale. Qualcosa sta avvenendo nel suo stato vegetativo?
«Scientificamente non vi è alcuna correlazione. Ma è altrettanto vero che generalmente negli stati vegetativi il ciclo ritorna dopo pochi mesi, non ho mai sentito di un ciclo che ritorna dopo quasi 17 anni. È un caso unico, a mia memoria. Significa che qualcosa è successo nell’ipofisi e nell’ipotalamo di Eluana. Questo non vuol dire, però, che potrebbe riprendere coscienza. Avanzo un’ipotesi suggestiva di carattere psicanalitico: non avendo altre forme di comunicazione, forse ha voluto avvertirci con il suo corpo che non vuole morire. Ma è solo l’ipotesi di un vecchio medico che da mezzo secolo sta in corsia accanto a chi vive in stato vegetativo».
In questi mesi lei, con tanti altri, si è battuto perché non finisse così. Come ha reagito alla sentenza?
«Non è una vittoria, come hanno detto i legali del padre e neppure una sconfitta dell’associazionismo e del mondo medico scientifico contrario a far morire la giovane. La Cassazione non si è pronunciata ed è stata, a mio avviso, una scelta pilatesca dei giudici perché si sono appellati a un vizio di forma. Non è cambiato nulla rispetto allo scorso luglio, il padre poteva decidere di togliere il sondino ieri come potrà farlo domani. Piuttosto, il loro problema è dove trovare un posto “adatto”, come dice la sentenza ad ospitare Eluana per morire. Non l’hanno trovato in Lombardia, in Piemonte, neppure nelle regioni laiche come Emilia e Toscana. Siccome si dice che andrà all’ospedale civile di Udine, in Friuli, mi risulta che una struttura pubblica non possa ospitare una persona, un cittadino della Repubblica, per farla morire anziché curarla. Quindi, sono intenzionato a denunciare i sanitari e i dirigenti che permetteranno che la donna muoia. E non è l’unica cosa che faremo».
Quali altre iniziative avete progettato?
«Oggi stesso presenteremo ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. Oltre all’associazione Vive, abbiamo il sostegno di 33 realtà tra cui la Federazione nazionale trauma cranico. Abbiamo qualche speranza, i requisiti per accogliere d’urgenza il ricorso ci sono tutti. Non ci illudiamo, ma la Corte europea potrebbe ancora fermare tutto e riaffermare il diritto di questa donna ad essere nutrita».
Su cosa si fonda il ricorso?
«Noi rappresentiamo chi si prende cura dei 30 mila pazienti in stato vegetativo e riteniamo che con la sentenza di ieri l’Italia abbia violato diversi trattati internazionali. Uno su tutti, la Convenzione Onu sulla disabilità del 2006. Eluana dal punto di vista medico è una persona in stato vegetativo persistente ed è clinicamente guarita, ma in maniera imperfetta ed è affetta da disabilità al massimo grado. La convenzione, sottoscritta dall’Italia un anno fa, le garantisce, in un comma dell’articolo 25, il diritto ad assumere cibo e fluidi. Purtroppo i giudici milanesi ignoravano tutto ciò e anche quelli della Cassazione. Bisogna allora andare fuori dai nostri confini per chiedere di riaffermare il suo diritto alla vita. E anche per tutelare migliaia di persone in stato vegetativo. Perché questa sentenza rischia di fare da apripista ad altre, può mettere migliaia di vite inermi come la sua su un piano inclinato e farle scivolare verso la morte perché un giudice ha stabilito che non sono degne di vivere».
IL COMUNICATO DELLA CEI: «Pietà e chiarezza»
La vita di Eluana Englaro, al cui dramma si è appassionata la coscienza del nostro Paese, è ormai incamminata verso la morte. Mentre partecipiamo con delicato rispetto e profonda compassione alla sua dolorosa vicenda, non possiamo fare a meno di richiamare alla loro responsabilità morale quanti si stanno adoperando per porre termine alla sua esistenza. La convinzione che l’alimentazione e l’idratazione non costituiscano una forma di accanimento terapeutico è stata più volte, anche di recente, resa manifesta dalla Chiesa e non può che essere riaffermata anche in questo tragico momento. In tale contesto si fa più urgente riflettere sulla convenienza di una legge sulla fine della vita, dai contenuti inequivocabili nella salvaguardia della vita stessa, da elaborare con il più ampio consenso possibile da parte di tutti gli uomini di buona volontà.
La Presidenza della Cei
Il diritto strumento di vita (14 novembre 2008)
Avallata l’eutanasia senza il coraggio
di chiamarla per nome
Francesco D’Agostino
Ci sarà modo nei prossimi giorni di approfondire la valenza propriamente giuridica della sentenza della Cassazione sul “caso Eluana”. Avremo modo di verificare se l’agonia cui Eluana appare ormai irrimediabilmente condannata sarà paragonabile a quella, atroce per la sua lunghezza, di Terry Schiavo.
Per ora limitiamoci a richiamare le obiettive ricadute biogiuridiche e soprattutto bioetiche di questa sentenza. Ribadisco: bioetiche e non teologiche, non dogmatiche, non spirituali, non religiose. Non perché queste ricadute non ci siano (anzi, sono le più importanti), ma perché prima di approdare al piano della teologia e della spiritualità abbiamo il dovere, come cittadini di una società laica e pluralista, di soffermarci e di ragionare pacatamente sul piano della comune ragione umana, quel piano che tutti ci accomuna, credenti e non credenti, quel piano che i magistrati di Cassazione hanno obiettivamente offeso.
A seguito dell’iter processuale cui questa sentenza sembra aver posto fine è stato introdotto in Italia un principio che non solo non appartiene alla nostra tradizione giuridica, ma che ripugna alla logica stessa del diritto: quello della disponibilità della vita umana e soprattutto della vita umana malata. In poche parole, i magistrati hanno avallato l’eutanasia, senza avere il coraggio di chiamarla con il suo nome. Non è vero che il caso Eluana sia riconducibile al legittimo rifiuto di un trattamento sanitario: alimentare un malato non è sottoporlo a un “trattamento”, ma prendersi cura di lui, in una forma simbolica ben più alta di quella stessa della medicina. E comunque, il solo fatto che esista l’opinione diffusa, anche tra autorevoli medici e scienziati, secondo cui alimentare e idratare un malato in stato vegetativo è una forma primaria di sostegno vitale e non una terapia in senso stretto, avrebbe dovuto indurre tutti (e i giudici di Cassazione in primo luogo) ad adottare un criterio interpretativo restrittivo e non estensivo dell’articolo 32, 2° comma, della Costituzione, che riconosce sì al paziente, come ormai a tutti è noto, il diritto di rifiutare trattamenti sanitari coercitivi, ma non gli dà il diritto di disporre della propria vita.
Continueremo a sentirci ripetere che con questa sentenza si è reso omaggio alla volontà di Eluana. A parte il fatto che la Cassazione ha ritenuto accettabili, per fornire la prova di tale volontà, testimonianze e indicazioni sullo stile di vita della povera ragazza che sarebbero ritenute risibili ove si dovesse accertare una volontà testamentaria di tipo patrimoniale (ma la vita non conta più del denaro?), si deve instancabilmente ribadire che l’autodeterminazione non può avere rilievo quando si concretizza per una scelta irreversibile come quella della morte. È la vita, infatti, e non la morte l’orizzonte nel quale si colloca il diritto. Se diciamo no alla pena capitale, non è perché riteniamo che non sia possibile che esistano criminali che la meritino, ma perché è atroce che attraverso una condanna giudiziaria il diritto si faccia strumento di morte. La Cassazione, probabilmente con serena inconsapevolezza, a tanto invece è giunta.
E ancora. Confermando che al padre di Eluana va riconosciuto il potere di ordinare la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione della figlia, la Cassazione ha alterato irrimediabilmente la figura del tutore, cioè di colui cui il diritto affida il compito di tutelare soggetti fragili, deboli, incapaci, inabilitati, interdetti, alla condizione però di agire sempre e comunque nel loro esclusivo interesse. Condannandola a morire di inedia, il tutore non solo sottrae a Eluana il bene della vita, ma soffoca ogni sia pur minima speranza di poter fuoriuscire da uno stato, come quello vegetativo, che non a caso la scienza definisce “permanente”, non “irreversibile”. Né va sottaciuto il fatto che, con la sua decisione, la Cassazione ha contribuito a offuscare il concetto, già in sé estremamente complesso, di accanimento terapeutico, inducendo l’opinione pubblica a ritenere ciò che non è, cioè che l’assistenza prestata a Eluana, per consentirle di sopravvivere, fosse futile, sproporzionata, indebitamente invasiva, caratterizzata dall’uso di tecnologie sofisticate.
Non è così che si rende omaggio alla verità.
Ma forse l’esito più devastante di questa sentenza sarà quello simbolico: essa avallerà l’opinione aberrante secondo la quale la sospensione dell’alimentazione sarebbe giustificata dal fatto che, in quanto preda di uno stato vegetativo persistente, Eluana avrebbe perso la propria dignità. È un messaggio devastante, oltre che colpevolmente umiliante per i tanti altri malati in stato vegetativo (e per le loro famiglie). Nessuna malattia, nemmeno la più grave, può erodere la dignità dell’uomo, né sospendere i suoi diritti fondamentali o incrinare il suo diritto alla vita. Che il signor Englaro, e con lui i magistrati che hanno avallato le sue richieste, abbiano perso questa nobile e antica consapevolezza, prima che suscitare critiche o sdegno suscita un profondo dolore.
in un’Europa nata da una grande intuizione sui diritto dell’uomo che viene invece tradita quotidianamente
è urgente dare voce a chi non ne ha.
Per questo il Movimento per la vita italiano, insieme alle associazioni per la vita e la famiglia
di quindici Paesi europei riunite nella Fefa hanno lanciato la
Petizione europea per la vita e la dignita’ dell’uomo
destinata a raccogliere milioni di firme di cittadini europei che saranno consegnate alle autorità continentali (EuroParlamento, Commissione europea, Consiglio dei ministri Ue, Consiglio d’Europa) ed al Segretario generale dell’Onu
nel prossimo mese dicembre, quando ricorrerà il sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Perche’ tale Petizione possa avere un peso sull’attiva’ degli organismi di governo del Vecchio continente e’ necessario che le firme siano tante e che il Popolo della vita che pure, nel silenzio, agisce in tutti i Paesi europei si mobiliti.
In Italia hanno gia’ aderto all’iniziativa Scienza&vita e Forum delle associazioni familiari
E’ necessaria l’adesione di associazioni, movimenti e comunita’.
Ma è anche necessaria l’adesione e l’impegno di tanti singoli cittadini
Per dare voce a chi non ne ha e’ necessaria anche la tua firma.
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