Il gioco, denominato Vinci per la Vita (Win for Life), e' stato studiato a sostegno…
Sta girando l’Italia un concerto che non è un concerto. Non può esserlo, se vi è in scena Mario Melazzini, presidente dell’Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica, in carrozzina perché affetto lui per primo da questa terribile malattia. Non può esserlo, se vi si riflette sul diritto alla vita o sul dramma della morte. Le canzoni – è vero – possono dire tante cose: però è raro che i loro autori si mettano in gioco oltre i loro versi.
Che svelino paure e valori, credo e sofferenze. Bene, nel concerto- non concerto L’altra parte di Ron accade invece proprio questo. Senza dischi da promuovere, senza neppure proporre tutti i suoi successi, Ron azzarda un incontro vero, senza rete, con la gente. Fra una canzone e l’altra dialoga tramite filmati con la madre, l’amico Dalla, il suo padre spirituale. O parla, appunto, con Melazzini, unica presenza fisica con lui sul palco.
E così facendo dice solitudine e fede, serenità e fatiche. Rivela la malattia del padre, giunge a confessare quante volte la musica sia stata per lui rifugio. Nel senso di alibi. E se gli si chiede quanto sia così anche oggi, la risposta spiega bene il significato di questa sua sfida nei teatri. Forse dice molto pure dello spessore di Rosalino Cellamare: dietro la maschera di Ron. «Mannaggia a lei, è proprio questo il punto del lavoro… Ho un nome, canzoni note, potrei fare di loro un rifugio. Da qui a sempre. Ma non mi basta più. E’ tempo di essere me stesso sino in fondo. Di dire cose oltre la musica. E la gente, beh, vedo che ha voglia di ascoltare. Di essere spiazzata, spinta a pensare».
Ron, cosa l’ha portata a questa scommessa?
Il fatto che le canzoni oggi, per tanti motivi, non danno più la possibilità di comunicare davvero come facevano anni fa. A teatro si può invece provarci ancora. Mi sono detto: se non oso adesso, quando? Credo sia il momento di far venire fuori tutto di me. Pure quello che la gente non sa né immagina. Compresi vissuti personali, che però credo comuni a tanti.
Il pubblico come ha reagito nelle prime repliche?
All’inizio sono spaesati: poi i dubbi scompaiono. Io non vedevo l’ora di arrivare loro senza filtri, loro forse volevano confrontarsi davvero con qualcuno.
Anche quando denuncia, con Melazzini, una società che emargina la sofferenza perché fa paura?
Sì. Quando tocchiamo certi temi l’attenzione è pure esagerata. E, finora, senza reazioni negative.
Con che criteri affrontate tematiche oggi molto delicate, come il testamento sul fine vita?
Intanto assumendoci la responsabilità di proporre un pensiero su cui riflettere seguendo un testo preciso, per non uscire mai dal seminato: su certi temi non sarebbe ammissibile. E poi però anche sottolineando il nostro sì alla vita. Per noi, Mario e io, significa promuovere l’iniziativa Liberi di vivere: perché tutti possano avere dalle istituzioni quanto necessario per vivere con dignità anche nella malattia. Mezzi tecnici, economici, psicologici. Perché vi possa essere una vera pari opportunità di scelta, tra vita e morte.
Dal palco parla anche della sua fede. Nessun dubbio, nel portare sotto i riflettori valori tanto intimi?
Non lo faccio per attirare l’attenzione: racconto una mia convinzione, essere guidato da Dio. Malgrado le mie mancanze, anche nelle difficoltà. E sento che la gente capisce. Perché la fede è una risposta mia, ma il bisogno di amare ed essere amati è di tutti.
Scusi, però: dopo che ha parlato di faccende come queste, che senso mantiene per lei cantare canzoni?
La musica può far volare le parole che dico. In modo forse più giusto, ma – soprattutto – senza arroganza.
Andrea Pedrinelli
Questo articolo è già stato letto 8222 volte!