Il gioco, denominato Vinci per la Vita (Win for Life), e' stato studiato a sostegno…
Chi stabilisce quand’è il momento di interrompere cure ed alimentazione lasciando che una vita si spenga? E secondo quali criteri? Ne parliamo a partire dalla storia di chi si è trovato a vivere sul confine tra la vita e la morte.
Nicola e Stefania, due vite senza apparentemente nulla in comune se non l’appartenenza alla stessa Comunità Papa Giovanni XXIII.
Stefania vive ad Alba di Canazei dove con il marito Giovanni condivide la responsabilità dell’Albergo Madonna delle Vette, fortemente voluto da don Oreste Benzi per permettere una vacanza alle persone che più aveva a cuore: i preadolescenti e i disabili.
Pochi mesi dopo la nascita del terzo figlio, Stefania si sente improvvisamente mancare, viene ricoverata d’urgenza e le viene diagnosticata una emorragia cerebrale che la porta in coma nel giro di poche ore. La sua situazione è grave ed è in pericolo di vita.
Negli stessi giorni a Rimini Nicola, figlio rigenerato nell’amore da Grazia Isaia dall’età di 6 anni, con una grave forma di cerebropatia e autismo, ha una delle sue crisi respiratorie più gravi, tanto da essere ricoverato in terapia intensiva fra la vita e la morte.
UNA SITUAZIONE SANITARIA PER CERTI VERSI ANALOGA ma con una considerazione ben diversa da parte dei medici.
Stefania è una madre, è giovane e fino al giorno prima scoppiava di salute. I medici se la prendono a cuore e fanno di tutto per salvarla. La sua situazione clinica è stazionaria e serve tempo per vedere come evolve la situazione. Giovanni, il marito, è il punto di riferimento dei medici; si sente subito in buone mani: sanitari competenti e molto disponibili che sanno cosa fare e non esitano a farlo, esami, trasferimento d’urgenza in un ospedale più attrezzato, intervento chirurgico. A lui non chiedono se e cosa fare, sono loro a decidere e ad eseguire puntualmente ogni intervento sanitario, nessun consenso informato. Giovanni non si sente espropriato del proprio ruolo: è puntualmente informato delle condizioni e delle prospettive di sua moglie, ha fiducia che i medici stiano facendo il possibile. «L’intervento è andato bene, fra un mese e mezzo la metteremo in piedi e potremo valutare i postumi dell’emorragia» sono le parole del primario al terzo giorno di degenza.
PER NICOLA È L’ENNESIMA CRISI DI UN RAGAZZO che non parla, che viene alimentato con il sondino, senza nessuna autonomia e che per la nostra società utilitarista è considerato solo un peso, definito da qualcuno “una bambola di stracci”. Termini che feriscono nell’intimo non solo chi Nicola lo ha accolto come un figlio ma anche chi, più semplicemente, lo ha incontrato, gli è stato accanto per un po’, e magari deve proprio a quell’incontro una svolta nella sua vita. Già nel ’93, in un episodo analogo, i medici avevano manifestato l’intenzione di non intervenire, di lasciar morire Nicola. Solo per le insistenze di Grazia e di don Benzi il primario aveva accettato di curarlo, e quando Nicola si era ripreso, uscendo dall’ospedale meglio di come vi era entrato, il medico aveva riconosciuto la grande lezione imparata. Ora Nicola è ricoverato nello stesso reparto, motivato stavolta ad accoglierlo e curarlo. Per salvarlo si procede con la tracheotomia. Un giorno, mentre Nicola è molto giù, Grazia gli propone di pregare per Stefania. Lui spalanca la bocca in un sorriso che da mesi non le regalava, come per annuire.
«Grazie Signore per questo sorriso», pensa fra sé Grazia. Senza sapere ancora che il vero grazie lo dirà più tardi, quando verrà a sapere che alla stessa ora i medici davano a Stefania buone possibilità di farcela, e il giorno dopo si alzava in piedi, pronta per iniziare la riabilitazione AD APPENA QUATTRO GIORNI DALL’INTERVENTO.
I RACCONTI DI STEFANIA SONO DIFFICILMENTE COMPRENSIBILI A CHI NON HA VISSUTO FRA LA VITA E LA MORTE: «Ero nell’erba insieme ad altre persone e stavamo lì, contenti… volevo restare lì. L’unica cosa che mi spingeva a non rimanervi è che i miei figli erano troppo piccoli per restare senza la mamma». A un certo punto, continua Stefania, «quando ho riaperto gli occhi ho visto don Oreste con gli occhi chiusi che pregava. Pensavo che qualche persona avesse bisogno e mi chiedevo se anch’io la potevo aiutare. Ho provato ad allungare le mani, ma ero come legata».
Alla fine anche Nicola si è ripreso ed è stato congedato dal medico con queste parole: «Nicola, tu volevi vivere e noi invece…». Poi, rivolto a Grazia: «Avevate ragione voi!».
È difficile riuscire a mettersi nei panni di chi vive situazioni simili. Per questo è fuorviante la pretesa di poter decidere da sani come vorremmo essere trattati da malati. La paura della sofferenza è in genere molto sovrastimata rispetto alla percezione riscontrata nel momento in cui la si sperimenta e l’attaccamento alla vita risulta più forte quando si è vicini alla morte.
Già oggi è possibile, a parte casi particolari, chiedere di non essere curati, semplicemente non presentandosi in Ospedale o rifiutando le terapie prescritte. Il grande equivoco sta nel fatto che alcuni vorrebbero che questa scelta ricevesse la benedizione dello Stato, mettendo a disposizione risorse non per curare la vita ma per sopprimerla.
Se da un lato va salvaguardata l’identità e la libertà di ognuno anche nella scelta di come curarsi, nella situazione in cui si trova, lo Stato non può dimenticare chi in questa società si sente di peso o viene considerato tale, e facilmente chiederebbe di togliere l’incomodo – o qualcuno lo chiederebbe per lui – se questo divenisse semplicemente un’opzione neutra.
di Enrico Masini
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