E’ bene arrivare in ritardo per gli auguri, per evitare l’ingorgo delle feste e per…
«Ci sono persone che si alzano al mattino senza sapere se mangeranno, se troveranno lavoro, se potranno andare a scuola, se avranno le medicine per curarsi, eppure, in questa precarietà di vita che a me, a noi, metterebbe angoscia, riescono a guardare con gioia il sole che nasce e scalda le giovani pianticelle di manioca e per questo ringraziano il Creatore». Dal 1989 suor Delia Guadagnini vive in una comunità sul lago Tanganica, nella Repubblica Democratica del Congo in un continente che «evoca immagini di violenze e di fame» ma che sa custodire «tradizioni e culture meravigliose, soprattutto volti e storie che ogni giorno mi insegnano qualcosa».
E il Vangelo ha la capacità di «salvare e potenziare questi valori». Nella sua esperienza missionaria ha appreso che «dare fiducia è un’ottima medicina». Bisogna saper «perdonare e ricominciare ogni volta da capo», perdonare anche «chi uccide con tanta crudeltà».
Ha messo in conto, «pur non cercandola, pur non desiderandola, pur avendone paura», la possibilità «di una morte cruenta». Non può muoversi da sola, perché la situazione non lo permette. Il dramma della guerra è negli occhi delle gente. «Le conseguenze non solo si respirano ma si vedono. Dal 1994 tante generazioni sono nate e cresciute tra gli orrori del conflitto, senza contare quello che hanno sperimentato e visto gli adulti».
Gli effetti sono ancora evidenti: malattie mentali, sfiducia e continui spostamenti di popolazioni affamate. Una classe sociale si è arricchita, l’altra è finita nella miseria. In questo contesto, la «Chiesa è più che mai viva, soprattutto con i Pastori che con la loro voce profetica tengono alto l’impegno per la giustizia, per la pace, per i diritti umani calpestati e richiamano i cristiani ad essere fedeli al Vangelo.
La Chiesa dà fastidio perché parla chiaro: è ascoltata e temuta. Rischia ma lo fa volentieri seguendo Gesù e il Vangelo».
Delia è cresciuta, nella sua Predazzo, dilettandosi nello sci, nella corsa campestre e nella pallavolo. Quando, nel settembre del 1978, è entrata a 19 anni tra le Saveriane ha portato con sé una chitarra e un pallone. La ragazza che sognava di diventare insegnante di educazione fisica, ha deciso di allenare lo spirito. Nel Sud Kivu, ai confini con il Burundi, coordina 320 scuole cattoliche su un territorio vasto (370 km a Nord e 600 a Sud) che permette il contatto con le 30 parrocchie della Diocesi. «Lavorare nel campo dell’educazione è fondamentale. Significa – afferma – preparare il futuro di un popolo».
L’équipe è formata da 24 persone. Iniziano la settimana con un incontro sulla Parola, poi si mettono in cammino (alcune realtà si raggiungono solo a piedi dopo diversi giorni) e in ascolto. «Abbiamo a cuore i tanti bambini che non vanno a scuola perché i genitori non possono pagare le tasse. Li andiamo a cercare, sosteniamo le famiglie e garantiamo loro l’accesso alla scuola elementare. L’obiettivo è di spingere lo Stato a offrire, gratuitamente, almeno gli studi elementari». Sta mutando anche il modo di essere missionari ad gentes. «Il nostro compito è di lavorare sempre di più insieme, di preparare le comunità in modo che presto possano andare avanti da sole».
La domenica, come racconta, si «riposa» entrando nella prigione di Uvira che accoglie, in condizioni disumane, 470 detenuti, anche minorenni. «C’è chi è dentro per sbaglio, chi ha ucciso, rubato o violentato. Ma non è questo l’importante. Li seguiamo, manteniamo i contatti con i loro nuclei familiari e una volta alla settimana distribuiamo la farina di granoturco. Cerchiamo le medicine per gli ammalati e curiamo le loro sofferenze». Alle 7.30 celebrano la messa o, se manca il prete, la liturgia della Parola.
Cattolici, protestanti e musulmani pregano contemporaneamente: «A volte è difficile capire, ma è bello sentire la lode che sale a Dio da tutti i suoi figli. Sto imparando a non giudicare nessuno, a vedere in ognuno un figlio di Dio, al di là di quello che ha combinato. Proponiamo cammini di conversione per uscire dal male fatto e riconciliarsi con se stessi, con le famiglie e con le comunità».
Qui dove la speranza, nemmeno nei momenti più bui, non ha abbandonato l’uomo, le Saveriane hanno il desiderio di «aprire una comunità in un posto di frontiera, lasciando ai nostri attuali collaboratori alcune responsabilità. Vogliamo andare dove nessuno va o non può andare. Andare per continuare l’annuncio del Vangelo a chi ancora non lo conosce».
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