Feto in un cestino del bar a Roma: ma chiamarlo “bambino” è troppo?

Da il 21 marzo 2013

Non correva, certo, ma avrebbe presto corso. Non schiamazzava in quel bar, ma lo avrebbe presto fatto. Non tirava la mano della madre per farsi comprare le caramelle, forse cominciava con qualche calcetto ad ordinare al bancone. Si sarebbe chiamato Matteo, Luca o Massimo, come i nostri figli, oppure Elisabetta, Aisha, Asia come tua figlia.

Invece sarà sempre e solo un “feto, grosso come un pugno, forse lungo 10 cm, trovato morto in un cestino di un bar nei pressi del Circo Massimo”.

Lo so che è sempre più facile uccidere per aborto, o per abbandono, un “feto” e non un “bambino” però non credo che la madre, una volta scoperto di essere incinta, abbia esclamato: Dio Mio, attendo un feto!

Ogni madre, anche la più insicura, anche la più indecisa, sa di attendere un figlio ma poi va ad abortire un feto, un embrione. La nostra società lo sa bene che dopo il test di gravidanza da una madre (e da un padre) può nascere solo un figlio, ma per la Legge 194 è un prodotto del concepimento, per una parte politica è una bandiera ideologica, per una parte dell’opinione pubblica è solo il momento sbagliato ed un problema a cui è possibile porre rimedio.

Quello ritrovato morto abbandonato nel bar del Circo Massimo invece è un bambino, vittima di sua madre soprattutto (anche lei vittima, alla quale porgiamo il nostro sostegno ed il nostro abbraccio per aiutarla a rinascere), della nostra società egoista, del nostro volontariato miope e litigioso (mea culpa), dei media che hanno paura ad educare con la forza e la verità delle parole, della nostra Capitale disorientata e concentrata sui grandi eventi e non su ogni singolo cittadino, nato o non ancora nato.

Giorgio Gibertini Jolly

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