"AVEVO FAME E MI AVETE DATO DA MANGIARE, AVEVO SETE E MI AVETE DATO DA…
Un rantolo. È incredibile il rumore assordante che può fare un rantolo quando si è costretti ad ascoltarlo in una stanza illuminata, come un camposanto, soltanto da un luce fioca. Un lumino al neon che fa giusto scorrere brividi nelle ossa. È difficile, nella penombra angosciante di questa stanza della «Quiete» di Udine, far finta di non sentire quel rantolo. Eluana Englaro sta morendo.
E ogni istante che passa è un istante che l’allontana sempre di più da quel letto di legno chiaro.
Il respiro di questa giovane donna, in stato vegetativo da diciassette anni, da ieri è soltanto un raccapricciante, disperato, segnale di un essere umano che chiede aiuto. Che chiede acqua. Che invoca, disperatamente invoca, una qualsiasi forma di nutrimento che le consenta di arrivare al capolinea di questa grama storia con la dignità che sarebbe dovuta e riconosciuta ad un qualsiasi condannato al patibolo. È strano, ma si potrebbe ben dire, anche se può sembrare assurdo, che il protocollo di morte sottoscritto dall’équipe di volontari con atto notarile voglia far passare Eluana Englaro per una malata terminale. Voglia appiopparle, per ragioni di convenienza, questo viatico. Per turare le falle che si aprono nelle coscienze. Per far finta di non vedere le sacche degli elettroliti, cioè le sacche della sopravvivenza, che sono lì a portata di mano. E, maggior ragione, far finta di non accorgersi che Eluana non è attaccata ad una macchina per respirare.
Perché quel rantolo, quel respiro, che ieri è cominciato a diventare sempre più affannoso, segnala al mondo, una volta di più, che in quel letto, recuperato non si sa ancora bene con quale osservanza delle procedure amministrative all’istituto geriatrico la «Quiete», non c’è solo e semplicemente un corpo ma, al contrario c’è ancora una vita. Alla deriva, certo, ma pur sempre una vita da rispettare. Ieri l’équipe del professor Amato De Monte è entrata in azione con i sedativi. Sedativi per far fronte agli spasmi, per difenderla ma soprattutto per difendersi dall’orribile spettacolo di un corpo che comincia, piano piano, per quei riflessi condizionati che nessuno sa spiegare, ad assumere una posizione fetale. Ha cominciato a contrarsi il corpo di Eluana. E le sue gambe hanno cominciato ad avvicinarsi al petto per via di contrazioni incontrollabili che somigliano in tutto e per tutto al preludio di attacchi epilettici.
E il suo corpo, macchina perfetta come ogni corpo che circola per le strade di questo mondo, ha cominciato a domandare altrove quei liquidi che non ha più, che non le vengono più dati per sentenza. Quei liquidi che possono, o meglio potrebbero, consentirle ancora di tirare avanti per qualche tempo. Quanto tempo di «quel qualche tempo» è difficile ovviamente saperlo. Per dirla scientificamente da ieri pomeriggio, se vogliamo essere dannatamente precisi nel tardo pomeriggio di ieri, Eluana è entrata in uno stato di ipotensione. Che significa ridotta pressione sanguigna. Che significa, per essere ancora più espliciti, l’inizio del punto di non ritorno di qualsiasi funzione renale. Quindi al di là del rapporto dei carabinieri dei Nas che alla «Quiete» hanno annusato puzza di irregolarità e al di là dei minuetti linguistici di cui ieri ha dato ampia prova il governatore della Regione Friuli Venezia Giulia, Tondo, è un dato di fatto che, da oggi, le condizioni di Eluana Englaro cominceranno ad imboccare una strada di problematica reversibilità.
Mentre leggete queste righe il problema della sua funzionalità renale sarà già un problema serio. Ovvero sarà già un’insufficienza renale a tutti gli effetti in grado di provocare un primo blocco renale. Vero è che in un qualsiasi ospedale «normale», ma non certo alla «Quiete» che è poco più di un parcheggio per gente in attesa di traghettare nell’aldilà, all’insufficienza renale si potrebbe far fronte con la dialisi. Ma per Eluana, condannata a morte senza possibilità di appello non è prevista una rimonta verso la vita. Non è prevista la dialisi. Non è prevista, chiariamolo una volta di più, qualsiasi forma di intervento terapeutico che vada oltre il mero, semplice e sconfortante monitoraggio. Come, per intenderci, se al posto di medici e infermieri ci fossero dei notai. In camice bianco, certo, ma pur sempre e solo dei notai chiamati a ratificare e a registrare, alla moviola dell’orrore, questo andamento lento. Verso un inesorabile capolinea.
Deciso, o per meglio dire imposto, da una squadra di manovratori della vita altrui.
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