Da febbraio sono attivi a Trento gli sportelli dedicati alle persone malate e ai loro…
Nelle nostre valli si è parlato di Alzheimer per la prima volta nel maggio 2010 quando fu organizzato a Pozza di Fassa dall’Azienda dei Servizi Sanitari, un convegno intitolato “Le Valli per l’Alzheimer”, sotto la direzione scientifica del dott. Gabriele Noro, Primario di geriatria all’ospedale S. Chiara di Trento.
In seguito alcuni familiari, in primis Luciana Tozzini, organizzarono un incontro di familiari di malati con il dott. Rigoni, neoassesore alla sanità del Comune di Pozza di Fassa. In quell’occasione erano presenti anche il dott. Dalprà e il dott. Nardelli, dirigente cure primarie di Fiemme e Fassa oltre ad otto familiari.
Fu deciso di richiedere la presenza di un geriatra nelle nostre valli per la diagnosi e terapia, si parlò di stress dei care-giver e della necessità di migliorare la rete di assistenza ( famiglia- medici di famiglia-infermieri- assistenti domiciliari- specialista neurologo-geriatra- case di riposo). Si decise di dar vita ad una associazione per diffondere sul territorio la conoscenza e cura delle demenze, patologie che portano in sé un forte stigma, nella convinzione che oltre a quella farmacologica, una terapia psico-sociale sia utile in ogni stadio della malattia.
Dopo un altro incontro, in novembre , presenti la signora Alma Demattio, ex assessore alle attività sociali del Comprensorio di Fiemme e il dott. Maffei di Predazzo, si diede vita all’associazione “Rencureme”
Nel video la testimonianza diretta di Roberto Nizzi, vicepresidente dell’associazione Rencureme, Claudia Crosignani, autrice del libro “Goccioline di Memoria” e Daniela Varesco di Bellamonte.
«La malattia tesseva la propria rete intorno a lui, lentamente, senza dare nell’occhio. Nostro padre vi era già imprigionato, e noi non ce ne accorgevamo», dice ancora Arno Geiger nel suo libro. L’esordio vero è spesso subdolo, ma a un certo punto vi è un evento della vita che improvvisamente richiede un impegno psichico maggiore e rivela che vi è un deterioramento cognitivo. Un lutto, ma anche un furto o solamente il cambio di casa, generano difficoltà sia emotive sia cognitive del tutto sproporzionate. Del quadro clinico della malattia di Alzheimer fanno parte sia il deficit cognitivo sia disturbi non cognitivi, con una progressiva perdita di autonomia nella vita quotidiana.
1 ) Sintomi cognitivi: la perdita di memoria è un sintomo precoce e diffuso nei malati di Alzheimer. È soprattutto la capacità di ricordare i fatti e gli avvenimenti recenti che viene persa, la cosiddetta memoria episodica: “che cosa ho mangiato stamane” (o anche se ho mangiato o no, per cui alle volte si ha una bulimia da non ricordo), “chi ho incontrato un’ora fa”, ma anche la lista delle cose da comperare, oppure recarsi in un posto e non ricordare per fare che cosa, cioè si perde la memoria che ci accompagna fra il presente e l’immediato futuro delle cose da fare.
Alle volte la memoria immediata, per esempio leggere un numero e scriverlo o comporlo sul telefono, può essere meno colpita all’inizio della malattia, ma poi risulta compromessa anche questa. Ma accanto ai disturbi mnesici, abbastanza presto si hanno dei disturbi cosiddetti esecutivi, cioè la capacità di concepire, programmare e poi eseguire in modo efficace delle azioni finalizzate, specie se complesse.
Questo è un disturbo diverso dalla incapacità prassica, che pure può esserci: per esempio, una persona aprassica non riesce ad allacciarsi un bottone, mentre se ha un disturbo disesecutivo non riesce a vestirsi in modo appropriato e mette, per esempio, la camicia sopra al maglione. L’associazione di questi disturbi porta a difficoltà di espressione e di linguaggio, per cui nel malato si perde dapprima lacapacità di denominare i singoli oggetti con un singolo nome ( mostrando una matita e chiedendo che cosa sia: « … si, serve per disegnare », ma il termine “matita” non viene; si parla di “afasia dei nomi”).
Poi si impoverisce sempre di più e si tende a rispondere usando singole parole («… Ieri sei caduto? Ti sei fatto male da qualche parte?», «Ginocchio »), fino alla afasia, cioè perdita completa del linguaggio. La perdita dell’orientamento spazio temporale, accompagna già le prime fasi della malattia. Di solito viene perso prima l’orientamento nel tempo e poi quello nello spazio.
Il malato non sa più che ora è, che giorno, che stagione fino a perdere, nelle fasi severe, anche la percezione della differenza fra giorno e notte, con le conseguenze immaginabili sul ritmo sonno veglia.
La perdita di orientamento spaziale è spesso il segnale di allarme che viene percepito per primo dai familiari: per esempio, la difficoltà a tornare a casa dopo essere usciti dalla Messa o dal negozio; mentre, spesso, episodi di confusione sui giorni e le date, già verificatisi, non sono percepiti come deficit tali da mettere in allarme chi vive vicino al paziente.
2) L’autonomia nella vita quotidiana è un altro importante aspetto colpito dalla malattia di Alzheimer. Si riducono per prime le funzioni più complesse della vita quotidiana, quindi le attività “strumentali” prima di quelle “di base”. Cioè si perde prima la capacità di cucinare che non quella di alimentarsi da soli; quella di utilizzare il telefono prima della perdita della parola.
E così avviene per l’assunzione appropriata dei farmaci, per l’uso del denaro come per l’uso dell’automobile. Soprattutto quest’ultima abilità è critica: molte persone mantengono la capacità fisica di compiere perfettamente le operazioni di guida, come mettere in moto, girare il volante, cambiare marcia, quando già non sanno più riconoscere i cartelli stradali, compiere una rotonda per il verso giusto o dare la precedenza a destra. Naturalmente, anche il pensiero astratto, la capacità di giudizio e di soluzione dei problemi viene meno: non si riesce a far di conto e non si capiscono più allusioni o metafore.
3) Sintomi non cognitivi: fanno parte del quadro della malattia anche disturbi psico-sensoriali e comportamentali. Uno stato depressivo iniziale, una minore inibizione delle emozioni, per cui vi è una sproporzionata irritabilità, sospettosità e, in generale, i conoscenti dicono che la persona «ha cambiato carattere». Alle volte questo si accompagna alla perdita di ogni iniziativa, una progressiva indifferenza all’ambiente e agli avvenimenti (chiamata “apatia”), ma più spesso porta a comportamenti molto disturbanti con idee deliranti (per esempio di furto: «La badante mi ha rubato la dentiera», «Mi portano via tutto», o di gelosia: «Esci per incontrare quella là…») o a iniziative incongrue.
Non riconoscendo più l’ambito domestico, ma anche per spinte compulsive, si tende a voler uscire di casa, oppure si pensa di essere vestiti con gli abiti di un altro e ci si sveste continuamente (ma attenzione questo può succedere anche perché il malato sente caldo!). Non mancano le allucinazioni, i malati possono vedere persone, animali o cose che non ci sono; alle volte sono visioni piacevoli (per esempio vedere il proprio cagnolino), alle volte angoscianti o paurose (per esempio persone che li minacciano di morte): ovvio che il comportamento terapeutico nei due casi è molto diverso.
Questi disturbi possono essere favoriti anche dalle dispercezioni sensoriali. La vista, in particolare, mostra al malato di Alzheimer un mondo meno nitido, con gli oggetti che non si staccano bene dallo sfondo (perdita della sensibilità ai contrasti) e con il calo della luce nella seconda parte della giornata vi può essere un aumento dei disturbi comportamentali, come l’agitazione e le allucinazioni (cosiddetta “sindrome del tramonto”) ma anche falsi riconoscimenti. Si mantiene invece a lungo, anche quando non si riconoscono più amici e parenti, la capacità di riconoscere le emozioni, specialmente quelle positive, nei volti delle persone.
Altri sintomi sono presenti e importanti da valutare. Uno di questi è la mancata consapevolezza del proprio deficit e della malattia (anosognosia), che non ha un rapporto diretto con la gravità della malattia. Vi sono malati di Alzheimer in fase lieve che non hanno alcuna coscienza del deficitmaanche persone in fase severa che non sono più in grado di badare a sé stessi ma hanno conservato la coscienza del loro deficit e ne soffrono.
La malattia di Alzheimer è una malattia che cambia da persona a persona, ma che cambia anche continuamente nel corso della sua non breve durata, in media quasi 10 anni. Per seguire questa lunga storia sono stati elaborati dei sistemi che aiutano a individuare, dal punto di vista valutativo e prognostico, la fase clinica della malattia. Uno dei più usati, la “Scala del deterioramento globale o Gds (Global deterioration scale)”, prevede sette “scalini” di gravità clinica che ripercorrono a ritroso le fasi dell’apprendimento operazionale dalla nascita all’età adulta.
Suggestivamente, tale scala traccia una sorta di involuzione circolare nella vita della persona, per cui il soggetto affetto regredisce nelle sue acquisizioni fino a tornare dipendente come nella sua tenera infanzia: per esempio, la classificazione Gds 5 equivale alle capacità cognitive di un bimbo di 7-5 anni.
La perdita funzionale accompagna quella cognitiva e la persona è sempre meno autosufficiente e richiede sempre più assistenza e sorveglianza. I disturbi del comportamento si aggravano e, specie dalla fase 4 della Gds, diventano prevalenti e causa principale di stress per chi assiste il paziente.
Da questa fase in poi può rendersi necessario il ricovero in un Nucleo Alzheimer o in altra struttura assistenziale. Nelle fasi avanzate iniziano le complicanze neurologiche, costituite dalla comparsa di un parkinsonismo, con difficoltà di equilibrio, cadute frequenti e progressiva compromissione del cammino.
Possono verificarsi fasi di dimagrimento inspiegabili, anche prima che compaiano disturbi della deglutizione o aprassia della masticazione. Di solito, a questo punto, i rapporti con l’ambiente sono ridotti al minimo e anche la coscienza dei propri bisogni e del proprio stato è del tutto assente, per cui anche interventi apparentemente di aiuto, come l’alimentazione artificiale, ottengono risultati di maggior disagio per il paziente senza aumentarne per altro in modo significativo la sopravvivenza.
Occorre notare che in questo contesto apparentemente devastante le vicende del paziente e dei familiari non assumono inevitabilmente un andamento tragico e disperante. Infatti, spesso, la malattia esordisce dopo gli ottant’anni e, quindi, finisce per fondersi con il termine naturale della vita, rendendosi emotivamente più accettabile. Inoltre, molti malati di Alzheimer mantengono, anche nelle fasi più avanzate, un guizzo umano nello sguardo e una serenità che stupisce.
Il malato di Alzheimer è come un pianista costretto a suonare un pianoforte sempre più scordato; può reagire con rabbia, deprimersi, ma frequentemente, specie se anziano, finisce per accettare la propria condizione, abbandonandosi alle cure e all’affetto dei propri cari. Esiste poi la possibilità di interventi terapeutici che possono dare notevole sollievo, sia utilizzando farmaci, sia avvalendosi di strategie comportamentali che, agendo sul paziente e sul suo contesto umano e ambientale, consentono il mantenimento di una condizione di vita relativamente serena.
La malattia di Alzheimer porta il nome di un famoso neuropatologo tedesco, Alois Alzheimer, che nel 1906 aveva studiato anche dal punto di vista neuropatologico con altri due patologi, Perusini e Bonfiglio, il cervello di una malata di demenza trovandolo povero di cellule, più piccolo, cioè atrofico, e caratterizzato dalla presenza al microscopio di placche fra le cellule e di grovigli neuro fibrillari dentro i neuroni: queste lesioni, individuate allora, sono ancora oggi considerate le principali caratteristiche neuropatologiche della malattia di Alzheimer.
In realtà negli anni successivi non vi fu molto interesse ad approfondire questa segnalazione e fino agli anni ’70, venne a lungo tenuta separata la “demenza di Alzheimer”, come malattia pre-senile, e la “demenza senile” fortemente legata all’invecchiamento, nonostante che il substrato neurobiologico fosse lo stesso.
Ci sono voluti due passi successivi per arrivare all’attuale definizione di malattia di Alzheimer, correlando il substrato neuropatologico al quadro clinico, a prescindere dall’età: 1) dalla fine degli anni ’60, una serie di ricerche molto note e citate dei ricercatori britannici Roth, Blessed e Tomlison, stabilirono gli schemi e le scale di valutazione sia per quantificare la gravità del deterioramento cognitivo sia per calcolare la gravità delle lesioni cerebrali, cercando anche di dimostrare una correlazione fra loro; 2) nel 1976, con la pubblicazione di un editoriale di Katzman su Archives of Neurology si chiedeva di non usare il termine “demenza senile” perché sia dal punto di vista neuropatologico sia del quadro clinico essa era indistinguibile dalla malattia di Alzheimer.
Questo editoriale cambiò le cose e portò a una revisione numerica impressionante della prevalenza e dell’incidenza della malattia di Alzheimer, che diveniva la demenza più frequente e un’importante causa di morte per gli anziani. Nonostante tutta questa lunga storia, la causa della malattia di Alzheimer, come di altre demenze, rimane ignota, anche se ci sono ipotesi patogenetiche fondate.
La demenza di Alzheimer è determinata dal fatto che i neuroni, in certe parti del cervello, prima diminuiscono l’efficienza e il numero delle “sinapsi” (cioè i “contatti” fra cellula e cellula), e poi degenerano e muoiono. Il cervello dei malati di Alzheimer in fase avanzata è caratterizzato da circonvoluzioni cerebrali ristrette, solchi e ventricoli ampliati; il peso del cervello nelle fasi più avanzate, può essere ridotto del 20 per cento. L’atrofia coinvolge i lobi temporali, parietali e frontali, e in modo marcato l’ippocampo, la cui atrofia progressiva valutata al “neuroimaging” è ritenuta un marker biologico. Si tratta di zone dove agisce un neurotrasmettitore, l’Acetilcolina, che risulta quindi deficitario nel cervello di questi malati. Ciò costituisce la base per l’utilizzo dei farmaci ad azione colinergica che possono avere una certa efficacia sui sintomi nelle prime fasi della malattia.
Tuttavia, tali farmaci non fermano i processi neurodegenerativi che tendono a coinvolgere progressivamente anche altri sistemi neurotrasmettitorali. Da ciò deriva la sostanziale inefficacia dei farmaci ad azione colinergica nelle fasi avanzate della malattia.
Oggi l’ipotesi più fondata è che il danno sia prodotto dai peptidi solubili dalla Beta amiloide e non da quelli accumulati nelle placche, che anzi potrebbero essere un modo con cui il cervello si difende da questa sostanza. Un altro segnale caratteristico presente nel cervello dei malati di Alzheimer è costituito dai cosiddetti “grovigli neurofibrillari” (Nft – Neuro fibrillary tangles), che si formano all’interno delle cellule. Secondo la teoria “amiloidocentrica”, sono proprio i peptidi della betaamiloide che determinano l’iper-fosforilazione della “tau“ con malfunzionamento della cellula nervosa e deposizione di grovigli neuro-fibrillari. Questi grovigli si trovano in quantità anche in altre demenze, soprattutto in quelle che colpiscono la zona frontotemporale. Nella demenza vascolare la causa diretta della morte delle cellule cerebrali è rappresentata da una o più ischemie e infarti cerebrali. Oggi, in realtà, si tende a rivalutare l’azione dei danni vascolari anche nella demenza di Alzheimer, per cui in certi casi la distinzione fra le due forme di demenza non è facile o addirittura impossibile (demenze miste), soprattutto nelle età molto avanzate dove convivono spesso degenerazione cellulare e danni vascolari.
Pur avendo descritto un quadro clinico certamente preoccupante, anche per la mancanza della conoscenza definitiva della causa della malattia, non bisogna concludere che per il malato di Alzheimer oggi non vi sia “nulla da fare”. Intanto è necessario proseguire con l’attività di ricerca, a tutti i livelli, per aumentare le nostre conoscenze sulla malattia.
E poi già oggi abbiamo acquisito conoscenze sufficienti per sapere che, anche se non abbiamo ancora una cura, possiamo modificare con interventi sintomatici farmacologici e non farmacologici il percorso che porta alla malattia e il percorso clinico che accompagna le persone con demenza, per le quali anzi sappiamo che c’è “moltissimo da fare”.
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Daniela
30 gennaio 2015 at 14:34
Grazie Mauro!
agnese
30 gennaio 2015 at 15:37
Molto interessante ascoltare quest’intervista,e leggere l’articolo.
un abbraccio a Claudia,Daniela e tutti coloro che stanno attraversando questo difficile momento.