Cavalese, una folla ha assistito alla rievocazione storica

Da il 6 gennaio 2009

%name Cavalese, una folla ha assistito alla rievocazione storicaSentenza eseguita nella gelida notte al parco della Pieve, come nel 1505

CAVALESE – Le torce sono accese. La campana suona l’ultimo rintocco. Un uomo, con un mantello nero e una fiaccola in mano, muove i primi passi all’interno della piazza illuminata dal passato e accende il braciere. «Giovanni dalle Piatte, Barbola Marostrega, Ottilia della Giacoma, Margerita Tessadrella, Margherita detta Tommasina, Elena Serafina, Ursula Strumenchena» chiama lo Scario Giovanni Giacomo nel suo dignitoso costume scuro, accompagnato dal suono dei tamburi e dal gemebondo ingresso degli imputati. La folla si accalca, si stringe sulle ringhiere di ferro e osserva, oggi come allora, l’umanità di quelle «maledette streghe».

Le urla echeggiano nelle pareti degli edifici adiacenti la piazza Verdi di Cavalese e tutto d’un tratto si torna al passato, al 1505, agli anni delle streghe fiemmesi. È «Il Processo alle Streghe» realizzato, sabato sera, dal Comitato rievocazioni storiche di Cavalese con la collaborazione di molteplici volontari e di diverse associazioni, per «ascoltare il passato, quel passato che non esisterebbe se la memoria umana non lo rievocasse». E il pubblico, alcune centinaia di persone, nella gelida notte di sabato, ha rivissuto le drammatiche pagine della storia della Val di Fiemme. «Che il processo abbia inizio» dichiara il Barone Virgilio Firmian, Capitano di Fiemme invitando tutti a recarsi al Banco de la Reson al Parco della Pieve. Così il «dionisiaco corteo» comincia a muoversi; i torcieri aprono la fila, poi i regolani, i boia, i tamburini e infine gli accusati. «Lasciateci andare. Non siamo state noi» urlano disperate le donne accusate di stregoneria tentando in ogni modo di liberarsi dalle catene. Erano anni difficili. Sotto il principe vescovo di Trento Udalrico Lichtenstein (1493-1505), una serie di calamità naturali, alluvioni e incendi indusse i residenti a credere dì essere vittime di un maleficio. Per questo motivo nel gennaio del 1501 fu arrestato Giovanni dalle Piatte di Anterivo con l’accusa di stregoneria. Questi, probabilmente sotto tortura e nell’intento di salvarsi, fece il nome di alcune «streghe» del luogo: gli arresti furono numerosi e le sventurate, accusate di eresia, abiura della fede cattolica, veneficio, omicidio, danni alle persone, al bestiame e ai raccolti, infanticidio, cannibalismo e rapporti sessuali col demonio, vennero incarcerate e costrette con la tortura a confessare le loro colpe. Esauste, dunque, le donne chiedono perdono e supplicano i regolani affinché sia loro fatta salva la vita. Solamente Barbola Marostrega ha ancora le forze per non confessare e dal momento che non è rea confessa sarà ricondotta alle carceri dove morirà successivamente in seguito ad atroci torture. Fra gli antichi tigli del parco della Pieve, attorno al Banco de la Reson, i giurati esprimono il loro verdetto. Ognuno di loro reca in mano due ciotoli, uno bianco e uno nero per «ballottare» la sentenza già scritta. Al termine della votazione, risultano 4 nere e 1 bianca: «le accusate vengono giudicate colpevoli. Si proceda a loro immediata combustione per mezzo del fuoco» ordina quindi, lo Scario. Poco più in là, nel parco avvolto dalla neve (nel 1505 le streghe venivano arse vive al Col del Rizzol attualmente abitato), di fronte alle cataste di legna pronte per essere accese, si aprono delle danze evocative, realizzate da dodici ragazze dell’Istituto superiore La Rosa Bianca di Cavalese, capaci di far emergere il profondo contrasto fra la dolcezza e soavità delle donne accusate di stregoneria e la durezza e fermezza degli inquisitori. Lentamente le danze si spengono, la musica si ferma e la folla silenziosa attende le fiamme del falò. I boia si apprestano a lanciare le fiaccole e il grande rogo simbolico prende vita mentre lo speaker sollecita il pubblico a «gettarvi dentro le “streghe” del nostro tempo, vale a dire le insidie, le incongruenze, gli affanni e le paure del nostro secolo». 

Francesca Patton

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