Domenica 16 luglio 2017 a Ziano di Fiemme Il Decanato di Fiemme propone un percorso…
Padre, mi dia una benedizione la prego e la supplico, se può salutarmi i miei due figli dicendo quanto li ho amati e che avrei tanto desiderato abbracciarli per un’ultima volta…padre, perché il Signore ha permesso tutto ciò…io sono sempre stato un suo servitore, anche se indegno, non l’ho mai abbandonato, e ora Lui, abbandona me! Pensavo di poter campare qualche altro anno, d’altronde 68 anni non sono poi così tanti.
Qui ci chiamano tutti “il vecchio”, e con un numeretto…io sarei il “vecchio 87”. Ma sa padre, io non mi sono mai sentito un vecchio…non ce la faccio più a parlare”. E così in lacrime il caro Giorgio ha speso le sue ultime giornate attaccato ad un respiratore e senza poter rivedere i propri cari.
Il pianto e lo strazio dei familiari in queste giornate apocalittiche è incontenibile e solo una piccola percentuale arriva nelle case dove, se da una parte si parla del covid-19 (spesso anche a sproposito) dall’altra si limitano le immagini e le dichiarazioni più drammatiche e scioccanti. Alcuni dicono, per non fomentare il panico. Mah! Eppure la realtà e quindi la verità non le si può nascondere. Non è possibile assistere alla tragedia di un’Italia schizofrenica che piange i propri figli e di un’altra Italia che ancheggia dai balconi o, peggio, finge che il pericolo non la riguardi azzardando trasferimenti e comportamenti che seminano il contagio su tutto il territorio nazionale.
Il bisogno, anche legittimo, di leggerezza non può giustificare alcuna forma di negazionismo o di ostinazione nel voler sdrammatizzare a tutti i costi, offendendo così la memoria di migliaia di defunti e la sofferenza di decine di migliaia di ammalati. E’ stata superata la quota sbalorditiva di 50.418 positivi, a detta di tutti i virologi punta di un icesberg almeno cinque volte superiore per dimensione. La gente è stanca anche dei tanti, troppi giochi di parole e paroline (morti per covid, morti con covid ) messi in campo per dissimulare ciò che non si può nascondere: l’ecatombe in corso.
Penso che tanta gente, quella che fortunatamente sta bene, non si rende ancora conto dell’indescrivibile dolore che i familiari delle vittime, ammalate o già uccise dal Covid, stanno subendo. E’ contro natura morire senza i propri cari intorno. Questa emergenza nega persino “l’onore delle armi” che le altre patologie permette ai moribondi: passare a miglior vita senza l’onta ulteriore della solitudine finale.
Tante sono le pressioni e le difficoltà che tutti gli operatori sanitari in prima linea stanno subendo: “Padre, noi non sappiamo che farcene dell’ammirazione – mi ha detto un medico infettivologo – noi abbiamo bisogno delle attrezzature per poter lavorare, invece, al momento, le abbiamo razionate e siamo sempre sull’orlo del collasso di un sistema impreparato ad una pandemia!” E così una farmacista: “Don, la mascherina me la sono fatta con il tessuto rimediato da casa perché qui non arrivano e tanta gente si dispera e va nel panico, non faccio altro che rispondere negativamente alle richieste di mascherine e amuchina”.
Che mortificazione, un Paese del G7 che non ha da dare ai propri figli il necessario per tutelarsi. E allora ho chiesto ad un medico: “Perché non fanno i tamponi?”. La risposta è stata sconcertante: “L’ho chiesto anche per me e il collega mi ha mandato sul telefonino una faccina con le lacrime”. E ancora, “Ad una cara famiglia che seguo da tanti anni ho detto di non portare la mamma anziana in ospedale… lasciatela morire a casa, almeno non dovrà subire il martirio della solitudine”.
Ecco, questo “martirio della solitudine” mi ferisce e amareggia profondamente. La gente si sente più sola che isolata. Le persone cercano affetto e, nei momenti più difficili, l’amore è veramente tutto. Se viene a mancare si sta già condannando a morte qualcuno.
I cappellani mi dicono: “don, qui è un fronte di guerra…gli infermieri sono esasperati e anche impauriti, la gente piange ovunque e fa male sentire il grido al telefonino dei figli, dei nipoti che danno l’ultimo saluto ai propri nonni, padri e madri, magari ascoltando solo la fatica del respiro”. Mai come in queste settimane i medici mi hanno chiesto benedizioni e preghiere e mai ho visto il personale sanitario così provato e disperato.
Tanti comuni del nord non vengono neanche citati ma il dolore dilaga ovunque e il terrore affiora negli occhi di tanti. La restante parte della popolazione risparmiata finora dal coronavirus non può fingere di ignorare questo stato di lutto generalizzato e di non ascoltare il grido di aiuto dei più fragili.
Dice il Qoelet: “c’è un tempo per ogni cosa”. Vorremmo che anche i media dimostrassero toni e modalità di espressione più rispettosi e contenuti: questo non è il momento del chiacchiericcio ma del pianto per i nostri morti e dell’impegno condiviso per fermare questo mostro invisibile. Non serve il baccano anzi è un insulto alla tragedia collettiva che non sappiamo ancora quali dimensioni assumerà e quanto durerà. C’è bisogno, invece, di silenzio, rispetto, preghiera, consolazione. Abbassiamo tutti i toni, se non per buona creanza almeno per un sussulto di decenza.
Un ragazzo di quattordici anni mi ha detto in lacrime: “Don, io non posso più vedere uno schermo, non ci riesco più!” Perché Andrea, che ti succede? “La gente canta e danza, ho visto anche delle suore ballare, ma a me da quando due settimane fa è morto papà è finita la voglia di vedere e sentire chiunque. Invece quella gente mi fa inorridire: come possono scherzare in mezzo a un simile orrore? Questa non è solidarietà, questa è disumanità…ti prego don, almeno dillo te”.
Nel mio piccolo provo a dare voce alle sofferenze odierne pur sapendo che la zizzania continua incessantemente a crescere accanto al grano buono. Lo sappiamo, mentre muoiono migliaia di innocenti c’è chi litiga per questioni economiche e di potere. L’arrivo degli sciacalli è purtroppo inevitabile come quello dei corvi che già puntano la preda. Le polemiche sterili, le cattiverie sconcertanti, i formalismi criminali ( ci si preoccupa ora della privacy, mentre da un decennio i social saccheggiano i nostri dati personali e si allungano i tempi per colpa della burocrazia in assenza di dispositivi medici salva-vita ) possono avvilirci, di certo non aiutano. Però chi ancora ha un po’ di valori e magari anche un briciolo di fede può contribuire a rendere anche questo momento un tempo di crescita. Me l’ha insegnato quel sacerdote che l’altro giorno ha detto: “il mio respiratore lasciatelo a chi è più giovane di me, e ha salutato questo mondo”. E’ lo stesso martirio della misericordia che settanta anni fa, in un lager, spinse San Massimiliano Kolbe a farsi giustiziare al posto di un giovane padre di famiglia. Si ricordino dei sacerdoti morti a decine in queste settimane tra le corsie lombarde coloro che ignobilmente riescono solo ad accusare la Chiesa di restare chiusa nei suoi palazzi.
Di don Aldo Buonaiuto https://www.interris.it/edit…/il-martirio-della-solitudine/…
L’ha scossa, ma lei non si svegliava. Preoccupato, ha avvisato il papà Luigi. E alla casa di Pedrengo sono accorsi, dall’altra parte della strada dove vivono, anche la mamma Rosa e l’inseparabile sorella Iris. «Non c’era niente da fare, non si svegliava», racconta la sorella Jessica, ripercorrendo come la sua famiglia sia stata colpita e devastata in una ventina di giorni. Fino al tragico epilogo di giovedì 19, quando questa mamma tuttofare si è spenta all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo con la diagnosi del coronavirus.
Meno di un mese prima, Jessica stava festeggiando con il marito e i due figli, Samuel e Christian, i sedici anni di quest’ultimo. «Stava benissimo – racconta la sorella -: in generale non ha mai avuto un’influenza nella sua vita. Non fumava, non beveva: era anche salutista nel mangiare, benché mai estremista. Eppure si è ammalata ed è morta». Il calvario è cominciato sabato 29 febbraio, con un po’ di febbre e qualche dolore tipico dell’influenza. Presa una Tachipirina la sera, la domenica sembrava stare meglio. Lunedì 2 marzo tornano i dolori, anche forti, al torace. Martedì il marito la accompagna all’ospedale di Seriate per una radiografia. L’esito parla di una «polmonite con versamento pleurico sinistro». Indossa la mascherina ma resta un’ora e mezza in attesa dell’esame.
Le viene prescritta una cura con l’antibiotico. Già il giorno dopo migliora e il venerdì sembra stare bene, tanto da fare la doccia. Sabato 7 marzo torna la febbre. Lunedì arriva il medico di base, che la visita: qualora peggiorasse, avrebbe dovuto chiamare il 112. La mattina dopo il dramma. Jessica non si sveglia più: già da una settimana dorme isolata, come consigliato dai medici. Arriva in un quarto d’ora l’ambulanza. L’ossigenazione del sangue è a 12, quando sotto i 90 (su 100) è pericolosa. «Ha aperto gli occhi, ma sembrava altrove – riferisce la sorella, ora in quarantena come tutta la famiglia -. Arrivata al Papa Giovanni, le hanno rifatto le lastre e la polmonite era diversa da quella di una settimana prima. Le hanno anche fatto il tampone: era il Covid-19».
La febbre resta alta: Jessica viene sedata e intubata. I giorni dopo sembra arrivare un lieve miglioramento, ma poi il quadro clinico precipita e alle 11,20 di giovedì scorso la quarantatreenne muore. «I medici l’hanno presa a cuore, anche perché giovane e mamma – dice la sorella -: sono stati davvero splendidi, anche se hanno detto che per loro la scomparsa è stata un grande insuccesso». Jessica lascia anche mamma Rosa e papà Claudio, entrambi poco più che sessantenni. Le due sorelle, entrambe dipendenti dello studio legale Ottavio Masseroni, erano legatissime: «Jessica era la mia collega e anche la mia migliore amica. Andavamo anche in vacanza assieme. Jessica era una mamma meravigliosa, una moglie attenta e una figlia presente e affettuosa. L’aspetto più straziante sta anche nel non poter vivere il lutto. A me dà fastidio vedere la gente che balla e canta sui balconi, semmai si preghi. Bisogna chiudere tutto. Non uscite o moriremo tutti».
Eco di Bergamo
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