I riccioli d'oro e il riso ignaro di un bimbo che va a morire. Ci…
di Francesco Agnoli
Il libro di Harry Wu “Strage di innocenti. La politica del figlio unico in Cina” dimostra come oggi, nel XXI secolo, in quel paese migliaia e migliaia di bambini vengono uccisi nel grembo della madre, in qualsiasi periodo della gestazione, oppure vengono affogati, strozzati, lasciati morire di freddo, una volta nati. Cose simili avvengono anche in India.
Ebbene, chi ama la storia sa che quello che succede oggi in questi due grandi paesi, che insieme costituiscono quasi un terzo della popolazione mondiale, è sempre accaduto, in passato, anche nella vecchia Europa o nel nuovo Mondo. Sino all’avvento del cristianesimo.
Una delle idee che più ricorrono negli scritti dei primi cristiani, è infatti il loro desidero di ribadire sovente un concetto: noi cristiani siamo diversi dai pagani, anche perché non uccidiamo i nostri figli, né nel grembo delle nostre donne, né fuori.
Minucio Felice, un apologeta del II secolo, nel suo “Ottavio”, al capitolo XXX, paragrafo 2, paragonando l’insegnamento di Cristo con quello degli dei pagani, scrive: “Voi esponete i vostri figli appena nati alle fiere e agli uccelli, o strangolandoli li sopprimete con misera morte; vi sono quelle che ingurgitando dei medicamenti soffocano ancora nelle proprie viscere il germe destinato a divenir creatura umana e commettono un infanticidio prima di aver partorito. E questo apprendete dai vostri Dei, Saturno infatti non espose i propri figli, ma addirittura li divorò”.
A sua volta, il grande Tertulliano, nel suo “Apologetico”, cap. IX, ribadisce: “A noi cristiani l’omicidio è espressamente vietato, e quindi non ci è permesso neppure di sopprimere il feto nell’utero materno. Impedire la nascita è un omicidio anticipato. Nulla importa che si sopprima una vita già nata o la si stronchi sul nascere: è già essere umano quello che sta per nascere. Ogni frutto è già nel suo seme”.
Un altro documento molto importante del cristianesimo del II secolo, proveniente dall’Asia Minore, la Lettera a Diogneto, ribadisce gli stessi ideali in questo modo assai sintetico: “i cristiani si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati”.
Proprio su questo tema dell’infanticidio lo storico A. Baudrillart ha scritto: “Non vi è forse materia, in cui tra la società antica e pagana e la società cristiana e moderna, l’opposizione sia più accentuata che i loro modi rispettivi di considerare il fanciullo”.
In effetti, se guardiamo al mondo antico, notiamo che l’aborto e l’infanticidio sono assai diffusi. “Seneca – ricorda il sociologo americano Rodney Stark, in ‘Ascesa e affermazione del cristianesimo’ – riteneva l’annegamento dei bambini alla nascita un evento ordinario e ragionevole. Tacito accusava i giudei ai quali ‘è proibito sopprimere uno dei figli dopo il primogenito’, ritenendola un’altra delle loro usanze ‘sinistre e laide’. Era comune abbandonare un figlio indesiderato in un luogo in cui, in linea di principio, chi voleva crescerlo avrebbe potuto raccoglierlo, anche se solitamente veniva lasciato in balia delle intemperie e di animali e uccelli”.
I bambini, a Roma come in Grecia, vengono dunque tranquillamente uccisi, oppure venduti, oppure esposti e lasciati morire di fame e di freddo, quando non vi è qualcuno a salvarli, solitamente per farne schiavi. Sappiamo di ritrovamenti, nelle fognature romane, di ammassi di ossa appartenute a neonati, abbandonati e poi gettati via come residui e immondizie.
Vittime dell’infanticidio sono più spesso le bambine, come nella Cina e nell’India di oggi, mentre l’aborto comporta, oltre alla morte del feto, non di rado anche il decesso, oppure la sterilità, della madre.
Il rifiuto dei primi cristiani di ricorrere all’aborto e all’infanticidio, connesso dunque a una loro alta fecondità, non è soltanto una grande conquista dell’umanità, ma anche uno degli elementi che permettono ai primi cristiani, insieme alle conversioni, di crescere sempre di più, sino a superare numericamente i pagani.
Ma l’infanticidio non è praticato soltanto a Roma, come testimoniato anche dalla leggenda di Romolo e Remo, o in Grecia, ma in tutto il mondo antico.
Il celebre bioeticista e animalista Peter Singer sostiene con forza l’idea che tale antica consuetudine sia da riscoprire anche oggi, assieme all’aborto legale. Infatti, se è vero che solo i cristiani la respinsero con forza – argomenta Singer –, perché mai dovremmo credere che essi siano stati gli unici ad aver ragione, mentre tutti gli altri popoli e religioni del passato, avrebbero avuto torto?
“L’uccisione dei neonati indesiderati – scrive Singer nel suo libro ‘Ripensare la vita’ – è stata prassi normale in moltissime società, in tutto il corso della preistoria e della storia. La troviamo per esempio nell’antica Grecia, dove i bambini handicappati venivano esposti sui pendii delle montagne. La troviamo in tribù nomadi, come quella dei Kung del deserto del Kalahari, dove le donne uccidono i bambini nati quando ci sia un figlio più grande non ancora in grado di camminare. L’infanticidio era prassi corrente anche su isole polinesiane come Tikopia, dove l’equilibrio tra risorse alimentari e popolazione veniva mantenuto soffocando i bambini indesiderati dopo la nascita. In Giappone, prima dell’occidentalizzazione, il ‘mabiki’, parola nata dalla prassi di sfoltire le piantine di riso per consentire a tutte quelle restanti di fiorire, ma che finì per indicare anche l’infanticidio, era ampiamente praticato non solo dai contadini, che potevano contare su modesti appezzamenti di terreno, ma anche dai benestanti”.
Con la diffusione del cristianesimo in buona parte del mondo, aborto e infanticidio divengono fenomeni molto più rari e circoscritti, mentre le legislazioni, a partire da Costantino, intervengono nella tutela degli infanti e si sviluppano opere di carità e di assistenza per i bambini abbandonati e per le famiglie in difficoltà. Sino al ritorno dell’aborto nelle legislazioni comuniste e naziste, nel Novecento, e dell’infanticidio, con la nuova legge sull’eutanasia dei bambini fino ai dodici anni, in Olanda.
***
Se torniamo ora con la mente ai due grandi paesi in cui l’aborto, anche forzato, e l’infanticidio sono fenomeni di massa, è facile, dopo questo breve excursus, capire il perché di tutto ciò: Cina e India sono tra i paesi in cui il Vangelo di Cristo è penetrato di meno, e con esso anche la cultura occidentale, portatrice, consapevole o no, di questo messaggio o almeno di parte di esso.
Quando i primi missionari gesuiti raggiungono la Cina, rimangono piuttosto ammirati da questa grande civiltà. Quello che però colpisce negativamente il grande Matteo Ricci, allorché nel 1583 mette piede nel Celeste Impero, è la prostituzione dilagante, la grande corruzione, la frenesia per il denaro e, soprattutto, la diffusione della pratica dell’infanticidio. Il regime comunista, capace di pianificare milioni di aborti forzati, sterilizzazioni di massa, uccisione in serie di neonati, ha ancora lontano da venire, ma il rispetto dei fanciulli, in quel paese per altri aspetti ammirevole, manca del tutto.
Come scriverà J. J. Matignon ai primi del Novecento in “Superstition, crime e misère en Chine”, i cinesi sovente vendono le loro figlie come prostitute, oppure le uccidono, per la povertà ma anche a causa delle loro superstizioni magiche, del loro ossessivo culto degli antenati: “Come sempre in Cina la superstizione gioca un ruolo chiave: infatti gli occhi, il naso, la lingua, la bocca, il cervello dei bambini sono reputati materie organiche dotate di una grande virtù terapeutica. Succede che dopo il parto la puerpera cada ammalata, e allora, per ingraziarsi gli spiriti, le bimbe o in certi casi i bimbi sono soppressi. Esistono delle donne che hanno il preciso compito di procurare la morte alle neonate… I neonati sono soppressi o buttandoli in un angolo dell’abitazione o in una cassa dei rifiuti; dove la polvere e le immondizie non tarderanno ad ostruirne le vie respiratorie”. Altre volte i bambini vengono annegati o soffocati con dei cuscini, anche se l’influenza degli europei, conclude Matignon, sembra avere qualche effetto limitante nei confronti di queste consuetudini.
Quasi negli stessi anni di Matignon, due missionari raccontano sulla Cina le medesime cose. Il primo è un gesuita, sant’Alberto Crescitelli, poi decapitato e sventrato, a 37 anni, il 21 luglio 1900, durante la rivoluzione dei Boxer. Il secondo è un missionario verbita della Val Badia, in Trentino Alto Adige, san Giovanni Freinademetz. Giunto nel paese che amerà per tutta la vita, sino a morirvi di tifo, egli scrive ai suoi cari, in più occasioni, che i cinesi hanno il “costume di esporre il proprio bambino o semplicemente scambiarlo oppure venderlo… Uno dei nostri migliori cristiani, prima della sua conversione, aveva ucciso la sua bambina scagliandola contro le pietre semplicemente perché piangeva troppo” (Sepp Hollweck, “Il cinese dal Tirolo”, Athesia, 2003).
In un’altra lettera, scritta da Hong Kong il 28 aprile 1879, Freinademetz racconta come le monache cattoliche abbiano costruito due orfanatrofi, in cui raccolgono più di mille bambini all’anno. I cinesi “li danno per niente o per alcuni centesimi, e non se ne curano altro”.
I missionari dunque – scrive da Puoli il 2 luglio 1882 – girano per le strade a raccoglierli, ne trovano a migliaia in fin di vita e si limitano a battezzarli, mentre quelli che possono li salvano: “Molte anime furono già salvate dopo che siam arrivati qui, molti bambini di pagani battezzati che poi se ne morirono ed ancora ieri abbiamo fatto una sepoltura solenne con una piccola bambina di più di un anno, che se ne morì. La sua propria madre voleva strangolarla per poter allattare un bambino altrui e guadagnare denari, essa poi sentì che noi accettiamo ogni sorta di bambini e li alleviamo bene; dunque ce la portò avanti più di due mesi, si ammalò e morì dopo essere stata confermata da noi mezz’ora prima di morire. Noi volevamo fare la sepoltura con tutta pompa per dimostrare ai pagani come onoriamo loro creature che essi gettano via. I pagani qui non usano scrigni da morte per piccoli bambini ma appena morti fanno un buco e lo gettano dentro. Noi gli facemmo a quella bambina un bel vascello tinto a rosso, la vestimmo con una bella veste azzurra, la portavamo in chiesa, noi tutti missionari accompagnati dai cristiani, che non avevano mai visto così. Molti pagani vennero a vedere…” (G. Freinademetz, “Lettere di un santo”, Imprexa).
***
Come in Cina, dove l’infanticidio è oggi addirittura affare di Stato, analogamente in India. Anche nel grande paese dominato dalla religione induista l’uccisione, soprattutto delle bambine, è largamente diffusa, per motivi economici e non solo. L’agenzia missionaria “Asia News” riportava recentemente questa notizia: “Presso molte popolazioni tribali le figlie femmine sono considerate solo un peso e la mentalità sociale ne ammette sia il feticidio che l’infanticidio. Nel 2006 in un piccolo villaggio del distretto di Ranga Reddy, a 80 chilometri da Hyderabad, undici neonate sono state lasciate morire di fame dai genitori. Molti tribali sono soliti avvolgere la bambina non voluta dentro stracci e lasciarla morire. Secondo la stampa locale, Jarpula Peerya Nayak, padre di 27 anni, ha detto che ‘mia moglie per la terza volta ha avuto una bambina. Una figlia femmina è un peso e abbiamo deciso di non darle da mangiare. Così è morta. È troppo difficile crescere una bambina e trovarle marito’. Il 25 febbraio anche suo cugino J. Ravi e la moglie hanno lasciato morire di fame la loro neonata. ‘Mia figlia – racconta Ravi – è morta due giorni dopo la nascita, perché non l’abbiamo nutrita. Abbiamo già due figlie, non possiamo permetterci di averne un’altra’. Un tribale spiega che quale dote della figlia dovrà fornire ‘uno scooter, fino a 70 grammi d’oro e 50 mila rupie, per avere un buon marito’. Dopo la morte, i tribali scavano una fossa e vi seppelliscono la neonata, con sopra una pietra. I cani hanno scavato la fossa e mangiato parte del corpo della figlia di Ravi, così l’hanno seppellita di nuovo. La maggior parte delle quaranta famiglie del villaggio hanno assistito a simili episodi o li hanno commessi, dopo avere già avuto due o più figlie femmine. Jarpula Lokya Nayak ha fatto morire di fame due figlie”.
Anche in India l’impegno dei missionari e delle minoranze cristiane è votato, oltre che al tentativo di infrangere il muro delle caste e delle diseguaglianze sociali, alla difesa della vita nascente e dell’infanzia, in nome del Dio che si è fatto bambino. Basti un solo esempio: quello di Madre Teresa di Calcutta.
Tutti sanno che la missione di questa donna è stata quella di aiutare i poveri dell’India, gli emarginati, i deboli, gli ultimi. Tra costoro Madre Teresa non ha mai dimenticato di citare i bambini nel grembo materno, definiti da lei, i “più poveri tra i poveri”. Nel libro “Dateli a me. Madre Teresa e l’impegno per la vita”, Pier Giorgio Liverani riporta il pensiero della santa, espresso in mille circostanze, con una grande forza, come in queste sue frasi: “L’aborto è ciò che distrugge la pace oggi. Perché se una madre può uccidere il proprio bambino, che cosa impedisce a me di uccidere voi o a voi di uccidere me? Niente. Ecco quello che io domando in India, che chiedo ovunque: che abbiamo fatto per i bambini? Noi combattiamo l’aborto con l’adozione. Così salviamo migliaia di vite. Abbiamo diffuso la voce in tutte le cliniche, gli ospedali, i posti di polizia: Vi preghiamo di non uccidere i bambini, di loro ci prenderemo cura noi” .
La lotta a favore dei bambini contro l’aborto e l’infanticidio è stata condotta da Madre Teresa e dalle sue suore, talora sino al martirio, con grande forza, scontrandosi con una cultura ignara della sacralità della vita sin dalla sua origine. Per gli induisti ad esempio, i bambini abbandonati o rifiutati dai genitori, se sopravvivono, sono e rimangono dei paria, dei sotto-casta, che scontano colpe precedenti. Le donne, in generale, e tanto più le bambine, sono costose, a causa della dote, e sono considerate inferiori al maschio, “fino al punto, non raramente, di avvelenarle al seno, cospargendolo di veleno, mentre succhiano il latte materno”.
Così succede che vi sia talvolta un numero di nascite molto alto, per la ricerca del maschio a tutti i costi e per il conseguente alto numero di infanticidi femminili: si abortisce selettivamente, sino a quando non si ottiene il figlio desiderato, di sesso maschile. Madre Teresa e le sue suore hanno fondato numerose case della carità, scuole ed orfanotrofi, ottenendo grande apprezzamento, ma anche l’opposizione del primo ministro Morarij Desai, che nel 1979 le accusò di aiutare i bambini con le scuole e gli orfanatrofi al solo fine di battezzarli e di convertirli. Madre Teresa gli rispose: “Mi pare che lei non si renda conto del male che l’aborto sta provocando al suo popolo. L’immoralità è in aumento, si stanno disgregando molte famiglie, sono in allarmante aumento i casi di pazzia nelle madri che hanno ucciso i propri figli innocenti. Signor Desai: forse, tra poco lei si troverà faccia faccia con Dio. Non so quale spiegazione potrà dargli per aver distrutto le vite di tanti bambini non nati, ma sicuramente innocenti, quando si troverà davanti al tribunale di Dio, che la giudicherà per il bene fatto e per il male provocato dall’alto della sua carica di governo”.
E Madre Teresa aggiungeva come nei 102 centri di Calcutta gestiti da lei fossero passate, nell’ultimo anno, 11.701 famiglie indù, 5.568 famiglie musulmane e 4.341 famiglie cristiane, a cui si era insegnato il senso della famiglia, il rispetto della vita, la necessità di una procreazione responsabile, arrivando a determinare la riduzione delle nascite, ma senza il ricorso né all’aborto né all’infanticidio! Il grido dei bambini non nati, degli infanti uccisi, diceva Madre Teresa, ripetendo in altro modo i concetti espressi secoli e secoli prima da Minucio Felice, Tertulliano e tanti altri, “ferisce l’orecchio di Dio”.
Il Foglio
Questo articolo è già stato letto 4133 volte!