Il mio «paziente» soffre, sogna, ricorda. Intervista a Carlo Valerio Bellieni. Video.

Da il 1 luglio 2009

di Daniela Pozzoli

bellieni1 Il mio «paziente» soffre, sogna, ricorda. Intervista a Carlo Valerio Bellieni. Video. Una sera, a casa di un’amica madre di sei bambini, davanti a un gruppetto di mamme e papà, il dottor Carlo Valerio Bellieni, neonatologo senese, impressionò tutti facendo vedere una cassetta in cui si mostravano le diverse reazioni dei neonati prematuri, bambini anche di pochi etti, agli stimoli dolorosi. Il pianto cessava quando udivano una voce umana o un brano musicale, o quando venivano accarezzati. Fino agli anni ’80, un po’ per paura degli effetti collaterali degli analgesici, un po’ per pregiudizio, il dolore nel neonato e nel feto veniva negato. Oggi non è più così, se si pensa che in Francia al feto che subirà un aborto terapeutico viene praticata l’anestesia. Bellieni da anni si occupa di indagare dolore, desideri, sogni, memoria del feto e dei minuscoli prematuri che arrivano nel suo reparto di terapia intensiva.

Nel suo libro «L’alba dell’io» (Società editrice fiorentina, 8 euro) lei sostiene che senza ombra di dubbio «il feto umano è una persona: sente, ricorda, sogna, prova dolore e piacere. Ha desideri. Eppure…»: che rapporto si determina oggi, in genere, tra il feto e la madre? È vero che le mamme non sanno più godere la gravidanza?
«Ogni mamma in attesa sa che dentro di sé è presente un bambino con cui può “dialogare”. In Olanda è nata da vari anni un’”arte” detta “aptonomia”, che aiuta questo dialogo: tramite voce e massaggio, i genitori mandano segnali al feto, e questo risponde. Non censurare questo dialogo produce l’affascinante scoperta di una compagnia: una compagnia nascosta, piccola, fragile, un’esperienza irripetibile per la donna. Qualcuno la ama esclusivamente perché c’è. D’altro canto, sembra che questa coscienza, ben presente in altre culture, per esempio in Africa o Asia, vada perdendosi nei popoli occidentali. La gravidanza è diventata una programmazione, il figlio “non-desiderato” è diventato “indesiderabile”. Michèle Vial, direttrice della puericultura di Parigi, narra della sospensione dell’affettività madre-feto fino alla risposta di normalità dalle indagini prenatali. Ecco che lo “stato interessante” diventa troppo spesso “stato stressante”, perché la donna sente su di sé il peso di generare un figlio “nella norma”».

Ritiene che sia ininfluente per la psiche del bambino il modo in cui è stato concepito, cioè se da due genitori o in una provetta?
«Non sono uno psicologo: rimando per questo a un interessante saggio, “L’embryon sur le divan” di Benoît Bayle (che meriterebbe di essere tradotto in italiano) dove vengono descritte le possibili conseguenze psicologiche delle nuove tecniche sui bambini nati. Piuttosto c’è da dire che molti studi descrivono i rischi sulla salute di questi bambini non di tipo psicologico ma organico, il che sta preoccupando molto il mondo della pediatria. I bambini interessati sono una piccola parte, ma tanti studi dicono che sono più che nella restante popolazione».

Il ministro della Sanità francese Mattei parla di «accanimento procreativo» che si sta verificando in questi anni. Cosa ne pensa?
«Volere solo il figlio “naturale” rischia di far passare l’adozione come una scelta di serie B. Poi bisogna vedere se il desiderio di avere un figlio “a tutti i costi” non nasconda una sottile paura. Come dice il ministro: “Tra l’accanimento procreativo e la tentazione di padroneggiare la morte, la nostra società in cerca di riferimenti mostra di trovare insopportabile non dominare questi due periodi della vita. Dominare la vita può rassicurare. Ma permette di eludere davvero le questioni essenziali?”».

Parlando di «giuste percezioni» alla base di un armonico sviluppo del sistema nervoso centrale, a cosa si riferisce?
«Il nostro sistema nervoso si è formato per un difficile equilibrio tra il progetto scritto nel Dna e gli stimoli esterni che ci sono arrivati prima di nascere. Un eccesso o un deficit di questi stimoli può essere pericoloso in situazioni estreme, ma da cui la gestante deve essere tutelata per tutelare meglio il feto».

Quali sono le prime esperienze in utero e quanto conta l’imprinting nello sviluppo dell’embrione?
«Gli avvenimenti subito seguenti il concepimento si succedono in modo vorticoso, armonico e non meno fondamentale degli avvenimenti del resto della vita. Sigmund Freud aveva avvertito che l’imprinting (le prime sensazioni che ci segnano, ndr.) agisce prima della nascita. Questo sviluppo necessita di un ambiente adeguato: Jean-Pierre Relier, uno dei padri della neonatologia, ha recentemente mostrato l’importanza del contatto dell’embrione con le cellule della tuba uterina materna. Già a 7 settimane il cuore batte. A quell’epoca è presente la bocca e se la sfioriamo gira in modo non cosciente la testa perché lì sono presenti i primi recettori per il tatto. Dal concepimento in poi, non ci sono salti nello sviluppo: la differenza tra embrione-feto-bambino è come quella tra bambino-adolescente-adulto: è un fatto quantitativo, non qualitativo. Dalla metà della gravidanza circa, il feto riceve altre informazioni: sente i suoni, sente il sapore delle cose che mangia la mamma, può sentire dolore, e soprattutto ne serberà memoria, pur non cosciente, dopo la nascita».

Sono aumentate negli ultimi anni le nascite di bimbi prematuri, dovute anche alle tecniche di fecondazione assistita: come neonatologo vede delle differenze tra questi e gli altri prematuri ricoverati nella sua terapia intensiva?
«Vede, un errore che non si deve mai fare è limitarsi alle proprie osservazioni: la medicina va avanti per evidenze prodotte da studi seri fatte su grandi numeri di pazienti. Oggi questi studi iniziano a esserci anche per i nati da fecondazione in vitro. Non è corretto fare allarmismo, ma è utile richiamare alla prudenza, come ha fatto Claire Brisset, “Defenseur des enfants” del Parlamento francese che ha suggerito una moratoria per la tecnica di fecondazione “Icsi” (l’iniezione di spermatozoi dentro il citoplasma, ndr), finché non si sia certi della sua innocuità sui bambini».

Quanto conta un buon rapporto pediatra-genitori allorchè alla nascita si scopre una patologia o un handicap?
«Il modo con cui la famiglia guarda il figlio malato passa attraverso lo sguardo del personale che lo ha in cura. Uno sguardo commiserativo ha lo stesso effetto devastante di uno sguardo cinico. La parola chiave è “presenza”: c’è bisogno di qualcuno che non fugga, che non si concepisca come “prestatore di un servizio”, di fronte al malato ridotto a “utenza”, che mostri che il piccolo che si ha di fronte vale molto più della sua patologia».

Nell’affrontare il dolore i prematuri hanno bisogno di una «presenza che aiuti»: lo può spiegare meglio?
«Da anni studio il dolore del neonato prematuro: è scaturito dall’osservare che se a questi “feti”, al momento di una puntura particolarmente dolorosa noi parliamo, li carezziamo, li distraiamo, il dolore scompare. Questo è un metodo ormai diffuso in tutto il mondo, che abbiamo chiamato “saturazione sensoriale”. Nasce dal riconoscere che la dignità di un paziente non dipende dal suo peso, dalla sua età. Fino a vent’anni fa si sosteneva che il bambino per varie settimane dopo la nascita non sentisse dolore e si agiva di conseguenza. Oggi questo mito, terribile per i neonati, è sfatato: la scienza comunque sbaraglia il pregiudizio. Così come sarà sfatato quello per cui la vita fetale ed embrionale è una vita di “serie B”».

Un paragrafo del suo libro è intitolato “Chi tutela il feto?”, ma chi tutela oggi l’embrione?
«La legge è utile. Ma chi tutela davvero l’embrione è la madre, come sempre. L’incapacità di tutelare l’embrione non è assolutamente diversa dall’incapacità di avere un rapporto con il figlio adolescente. Oggi l’adolescente è spesso un elisir di giovinezza per i genitori, il bambino è un realizzatore dei sogni irrealizzati, il neonato un bambolotto, il feto, se non programmato, un intruso. Come pensare che l’embrione sfugga a questa logica e non si sia portati a trattarlo come un “oggetto”?».

Avvenire

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