SANITA': BRUNETTA, A BREVE CERTIFICATI MALATTIA SOLO PER VIA ELETTRONICA Roma, 14 ott. - (Adnkronos/Adnkronos…
Le prospettive cambiano quando la morte ti guarda negli occhi. Quando la diagnosi di una malattia dalla quale non si può guarire viene scritta sotto il tuo nome. Allora non pensi più all’eutanasia, ad abbreviare la tua vita prima del tempo. Tutto si ribalta, valori e convinzioni. Anche se prima, quando avevi il dono della salute, credevi che fosse un diritto e una tua libertà avere una morte degna che abbreviasse le sofferenze. Dopo, invece, vuoi viverla fino alla fine, la tua esistenza.
Vuoi aggrapparti a ogni minuto e alla speranza molto umana che alla fine salti fuori una cura miracolosa. Sylvie Menard, 61 anni, parigina e laureata alla Sorbona, è una ricercatrice oncologica che da 40 anni lavora in Italia per trovare cure anticancro. In una delle eccellenze scientifiche italiane, l’Istituto dei tumori di Milano, è stata allieva di Umberto Veronesi ed è stata direttrice del Dipartimento di oncologia sperimentale. Oggi è in pensione, ma collabora sempre con l’ospedale. Il 26 aprile del 2004, a seguito di un malore, le venne diagnosticato un tumore al midollo osseo da cui non si guarisce.
Cosa è cambiato da quel giorno, dottoressa Menard?
Tutto. Mi sono guardata allo specchio e mi sono detta che non era vero, era un errore. Dopo tante sofferenze, ho cambiato le mie convinzioni sulla vita e sulla sua fine.
In che senso?
Sono sempre stata a favore del testamento biologico e dell’eutanasia. Ne avevo scritto uno privatro, ma l’ho strappato perché non voglio che ne venga fatto un uso improprio. Non voglio morire, voglio vivere fino all’ultimo. E credo che la scienza debba aiutare a curarmi.
Anche se la sua vita di malata non fosse degna?
Per me è sbagliato parlare di vita indegna e di morte dignitosa. Sono concetti elaborati dai sani. I malati non la pensano così e andrebbero a mio avviso coinvolti e ascoltati qualora si volesse discutere una legge sul testamento biologico. La vita è sempre degna. La verità che si vuole coprire è un’altra: in Italia i malati terminali e le loro famiglie sono troppo spesso lasciati soli e siamo indietro nelle terapie antidolore. Certo, se a una persona sana prospetti una fine sofferta, un’agonia dolorosa, affermerà che preferisce l’eutanasia. Ma in un paese davvero civile esistono alternative. Se una persona è depressa e vuole suicidarsi, non mi pare etico darle una mano e spingerla giù da un parapetto.
Qualcuno potrebbe obiettare che va evitato l’accanimento terapeutico…
Mi sono convinta in 40 anni di lavoro e ascoltando le esperienze in corsia dei colleghi che in realtà non esiste accanimento. Anche questo è un problema posto dai sani. Sono le famiglie e i malati terminali a chiedere di non sospendere le terapie, a sperare che la prossima cura sia quella giusta. Nessuno accetta di sentirsi dire che non c’è più nulla da fare.
Solitudine delle famiglie dei pazienti e arretratezza della ricerca. Con le differenze del caso, non è la situazione degli stati vegetativi?
Sicuramente. Non sono una specialista, ma sono una ricercatrice e mi fido solo dei dati. Anzitutto, degli stati vegetativi la scienza medica sa ancora troppo poco. Poco o nulla è dimostrato perché non è un settore che abbia interessato molto questa sanità sempre alla ricerca di fondi. Di conseguenza c’è molta disinformazione. Basta leggere quello che pubblicano molti giornali sulla vicenda di Eluana. In alcuni si parla a sproposito di questi malati, definendoli ad esempio ‘comi vegetativi’ che non esistono. Eluana, poi, vive senza macchinari e non è terminale. Poiché la scienza non conosce il suo stato di coscienza, mi domando perché uccidere questa donna sia diventata la prova che l’Italia è un paese civile. Se vi sono dubbi sulla sua vita, non si risolvono ammazzandola.
Come valuta la vicenda?
C’è un padre che si è trovato solo ed è stato convinto da alcuni medici che sua figlia deve morire perché quella che sta conducendo non è vita. Eppure il cuore di Eluana batte e lei respira. Come fa uno scienziato, un medico, ad affermare che non è viva? E che non soffrirà se le verrà sospesa l’alimentazione? Le suore Misericordine di Lecco che hanno assistito Eluana per anni, pur senza una laurea in medicina, non hanno dubbi sul fatto che sia viva. Altro paradosso, qualche tempo fa si era letto che la donna aveva avuto gravi problemi rischiando di morire. Allora perché l’hanno fatta curare?
Il professor Defanti ha definito la sospensione dell’alimentazione una morte dolcissima.
È l’uomo che ritiene di cominciare da oggi a dimezzarle l’alimentazione, atto ancor più crudele. Mi chiedo cosa ne sappia, certo non ha mai parlato con uno di questi pazienti. Se si sbaglia e queste persone provano sensazioni, immaginate cosa patirà Eluana quando le toglieranno il sondino per l’alimentazione e morirà di fame e sete in 15 giorni.
Eluana avrebbe detto a famigliari ed amiche di preferire la morte allo stato vegetativo.
Può darsi. Ma chi ha la certezza che anche se in stato vegetativo, oggi non abbia cambiato idea e preferisca vivere? La scienza non ci offre sicurezze.
Cosa rischia l’Italia con questa vicenda?
Se la sentenza viene eseguita, si rischia di aprire una porticina verso la morte in cui possono scivolare prima di tutto le 2500 persone in stato vegetativo in Italia. Senza contare i malati di Alzheimer e le demenze senili. Vi saranno infatti medici e famigliari che si chiederanno perché loro devono continuare a vivere se Eluana è morta. Qualcuno potrebbe anche farsi venire la tentazione di far pulizia delle persone che non sono sane e perfette. Neonati compresi.
Una vera e propria deriva di morte a suo giudizio, insomma.
Si, senza contare il messaggio culturale falso e offensivo verso i malati in stato vegetativo e le loro famiglie che soffrono e fanno dei sacrifici enormi per amore dei loro cari. In pratica si dice loro che è tutto inutile, che i loro congiunti stanno vivendo una vita indegna. Questa cultura mi fa paura perché rifiuta chi è diverso, il malato e assegna ai sani il diritto di decidere chi può vivere.
Dottoressa Menard, lei crede in Dio?
No, ho avuto un’educazione cattolica, ma non sono riuscita a conciliare fede e scienza. Da quando ho il tumore vorrei tanto credere in Dio, mi aiuterebbe. Dalla vicenda di Eluana sembra che siano solo i cattolici a difendere la vita. Che non credenti e laici siano per la morte. Invece non deve essere così, la vita è un diritto che va difeso da tutti.
Paolo Lambruschi
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