Per chi lotta da decenni strenuamente contro l’aborto anche con la speranza di ridurne la…
Angelo (lo chiameremo così), abortito volontariamente il 24 aprile scorso all’ospedale di Rossano Calabro quando era un feto già di almeno 22 settimane, «è sopravvissuto senza alcuna cura per 24 ore, dodici delle quali in gran parte notturne, in grave ipotermia», adagiato su una ciotola di metallo «poggiata su di un carrello». Un fatto che non ha granché scosso i media nazionali (mentre ha fatto scalpore su quelli internazionali), ma che nella ricostruzione del sottosegretario Eugenia Roccella – chiamata a rispondere a un’interpellanza urgente della deputata Udc Luisa Santolini – suona ancora drammatico. Coperto da un telo in attesa di essere gettato tra i “rifiuti speciali” dell’ospedale, Angelo è stato dimenticato lì, finché il giorno dopo una dottoressa passata per caso non ha «percepito un rumore. Rimosso il telo potè verificare la presenza di un neonato» ancora capace di emettere gli ultimi gemiti. Dopo l’aborto – ha spiegato il viceministro alla Salute – «supponendo la diagnosi di morte certa non è stato chiamato né il pediatra né il rianimatore. Il neonato è stato avvolto nel telo e adagiato su un fasciatoio in attesa di un suo trasporto nella camera mortuaria, e in tale luogo è rimasto», continuando a gemere e lottare per la vita tutta la notte e il mattino successivo.Non solo un evento umanamente e moralmente terrificante, ma anche una totale infrazione della legge 194 (“Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”) che così dice: dopo i tre mesi di gravidanza, è possibile abortire esclusivamente in due casi, ovvero quando la gravidanza comporti un grave pericolo di vita per la donna, e quando nel nascituro siano accertate anomalie non solo “rilevanti” ma anche determinanti un “grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”; non solo: quando ormai c’è la possibilità che il nascituro abbia già vita autonoma (e alla 22esima settimana questo avviene già con una certa frequenza) l’aborto può essere praticato esclusivamente nel primo caso (grave pericolo per la vita della donna) e “il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto”. Angelo non aveva alcuna “rilevante” malformazione, solo una palatoschisi (il labbro leporino), eppure un medico del dipartimento di salute mentale di Cosenza ha dato il via libera, certificando in quel labbro leporino «un grave pericolo per la salute psichica» della madre. E di salvaguardare la sua vita nessuno si è comunque sognato.«Non si è a conoscenza di cosa sarebbe successo se fosse stato subito soccorso adeguatamente in un ospedale attrezzato», ha rilevato la Roccella, ricordando l’inutile corsa alla terapia intensiva neonatale di Cosenza, «ma sicuramente ha dimostrato di aver avuto capacità di vita autonoma, nonostante il completo abbandono». Per un aborto così a “rischio sopravvivenza” «era necessario un ospedale e del personale attrezzato per grandi prematuri», ha ricordato. Di qui l’impegno del governo «che sta valutando quale strumento utilizzare per vietare gli aborti oltre la 22esima settimana di gravidanza, come ormai conviene l’intera comunità scientifica» (alla 24esima settimana il 50% dei feti ha già vita autonoma), «e affinché le interruzioni di gravidanza tra la 20esima e la 22esima settimana siano effettuate solo presso unità ospedaliere con terapia intensiva neonatale». Perché se un altro feto sfuggisse alle maglie della morte e venisse al mondo vivo, riceva le stesse cure di qualsiasi bimbo nato prematuro, uguale a lui ma non chiamato aborto né rifiuto speciale.Lucia Bellaspiga Avvenire.it
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