Reportage di Guido Dellagiacoma, in Congo da suor Delia per avviare l’esperienza dei Club Alcolisti

Da il 19 novembre 2012

UN CORSO DI SENSIBILIZZAZIONE SULLE SPONDE DEL LAGO KIVU NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO ORGANIZZATO DA SUOR DELIA GUADAGNINI

 PROLOGO

Per comprendere meglio le mie riflessioni è utile conoscere la situazione della zona in cui siamo stati.

Il confronto in atto nelle provincie orientali della Regione del Kivu vede su fronti opposti i ribelli del Movimento 23 marzo e le truppe regolari di Kinshasa (capitale della Repubblica Democratica del Congo). Molti dei ribelli sono ex appartenenti all’esercito governativo, che hanno deciso di appoggiare il tentativo dei separatisti delle province orientali anche a causa del grave stato di corruzione che affligge l’amministrazione di quelle lontane re g i o n i .

 Il riaccendersi della violenza, sta causando centinaia di vittime e migliaia di profughi. Nella diocesi di Bukavu stanno affluendo migliaia di profughi in seguito al dilagare del conflitto. Attualmente nella Repubblica Democratica del Congo sono presenti anche altri conflitti interni, di minore entità, che interessano diverse regioni ma a Bukavu la maggioranza dei profughi proviene a causa degli scontri nel Nord e nel Sud Kivu. Questi confronti armati provocano conseguenze gravissime per le popolazioni che vivono in quelle aree: sono frequenti le uccisioni anche d’interi nuclei familiari, aumentano le violenze contro le donne, le torture e le mutilazioni. La mancanza di cibo e di qualsiasi forma di assistenza fanno crescere a dismisura il numero dei profughi che fuggono da quella situazione di orrore in cerca di una zona più sicura. «Oltre a questi problemi ultimamente si è registrato tra i profughi il rapido aumento delle vittime di malattie infettive che stanno uccidendo i più deboli. Colera e malaria stanno provocando numerosi decessi tra i bambini, gli anziani e le donne”. ( http://www.cristianocattolico.it/rassegna-stampa-cattolica/dal-mondo/dai-vescovi-appello-per-la-pace-in-congo.html ) © Osservatore Romano – 25 luglio 2012

PRESENTAZIONE

Sono Guido e con Dunia sono stato nella Regione del Kiwu, nella Repubblica Democratica del Congo, invitato da suor Delia Guadagnini, per tenere un “Corso di Sensibilizzazione all’Approccio Ecologico Sociale ai problemi alcolcorrelati e complessi, metodo Hudolin.

Vladimir Hudolin era uno psichiatra croato, esperto internazionale di problemi legati al consumo di alcol e droga. È stato direttore della Clinica di Neurologia, Psichiatria ed altre dipendenze dell’Ospedale Universitario di Zagabria e titolare della cattedra di neurologia, psichiatria e psicologia medica della stessa Università, presidente della Associazione Mondiale di Psichiatria Sociale; Presidente Onorario della Associazione Mediterranea di Psichiatria Sociale nonché membro del Gruppo degli Esperti dell’OMS per l’alcolismo ed altre dipendenze. Durante la sua Carriera Universitaria e Scientifica è stato membro del Comitato di Redazione di numerose riviste internazionali del settore e autore di oltre 350 pubblicazioni nonché di 20 libri, prima ancora di produrre una amplissima raccolta bibliografica dell’Approccio Ecologico- Sociale sul quale si fonda oggi il lavoro dei Club degli Alcolisti in Trattamento (oggi Club Alcologici Territoriali metodo Hudolin) di cui è riconosciuto essere l’ideatore. È deceduto a Zagabria il 26 Dicembre 1996.

Sia io che Dunia siamo Servitori Insegnanti nei Club Alcologici Territoriali: io nel club Bollicine di Predazzo e Dunia nel club S.Antonio di Molina di Fiemme.

L’approccio ecologico sociale ideato dal professor Vladimir Hudolin vede l’alcolismo non come un vizio od una malattia ma come uno stile di vita, un comportamento sbagliato e la persona con il problema è vista dentro la sua realtà quotidiana, nella sua famiglia, nel suo posto di lavoro, nella sua comunità e non in qualche ospedale o casa di cura, come avveniva una volta, quando le persone  con problemi di alcol venivano rinchiuse in manicomio.

Per fronteggiare i problemi alcolcorrelati, Hudolin parte dalla persona con il problema, la inserisce nel club con la sua famiglia, e la trasforma in una risorsa per la comunità.

Il Club è una palestra dove le famiglie imparano a diventare protagoniste della propria vita, ad essere consapevoli delle proprie risorse personali e collettive, oltre che del proprio ruolo all’interno del gruppo e della collettività.

L’INIZIO

Tutto è incominciato nel Club Bollicine di Predazzo.

Correva l’anno 2007. Suor Delia, missionaria Saveriana  nella Repubblica Democratica del Congo, ha un fratello che frequenta  il club. Durante le ferie triennali anche lei partecipa al club e capisce che potrebbe servire anche per le famiglie della sua parrocchia in Africa.

Prova quindi a piantare dei semi anche nel villaggio dove svolge la sua missione terrena ed alcune famiglie riescono a dissetarsi a quella preziosa fonte ed a ritrovare la pace e la serenità.  Purtroppo da quando il dovere l’ha chiamata ad un altro servizio, le famiglie non si incontrano più ed a fatica  riescono ad arrancare sulla strada  intrapresa.

Suor Delia chiese allora la nostra collaborazione per organizzare un corso di sensibilizzazione per formare nuovi Servitori Insegnanti di Club, persone motivate e sensibili, disposte ad aprire nuovi club.

I Club di Predazzo accolgono la richiesta ed incominciano ad organizzare manifestazioni per raccogliere i fondi necessari per il corso. Raccolgono poco più di 3.000 euro  ma nel frattempo, nei territori dove si doveva andare è scoppiata la guerra e quindi Suor Delia rimanda tutto a data da destinarsi.

Passano così 4 o 5 anni e finalmente suor Delia da il via libera: disordini ce ne sono ancora ma il corso si può fare!

SI PARTE

La notizia mi arriva tanto inattesa quanto desiderata. Ormai dopo tanti anni mi ero messo il cuore in pace. Si vede che non era destino andare in Africa, pensavo, ed invece ecco che, in una gelida mattina del febbraio di quest’anno,  mi squilla il cellulare e con voce scintillante sento suor Delia comunicarmi ufficialmente che il loro Consiglio ha deciso di organizzare il Corso di Sensibilizzazione nel prossimo mese di luglio.

Nell’immediato non ho avuto il tempo di riflettere ed ho accettato con entusiasmo questa nuova avventura.

I giorni successivi però mi ritornavano alla mente le brutte notizie  lette sui giornali: genocidi, cadaveri, stupri, violenze, ribelli, guerriglieri, Hutu, Tutsi, fame, razzie erano le parole che più mi risuonavano in testa.

Che fare?

Ormai avevo dato la mia parola e, molto più importante, c’era un’amica che aveva bisogno di me. Non potevo lasciarla sola!

E tutte quelle famiglie africane che stavano soffrendo a causa dell’alcol? Non potevo non ascoltare il loro silenzioso grido di aiuto!

E mia moglie, i miei figli e i miei nipotini? Anche loro hanno bisogno del nonno o meglio il nonno ha bisogno di loro!

I miei dubbi e le mie paure erano tante, ma grazie a Dunia, un quintale di bontà e sicurezza, il 10 luglio eravamo pronti per partire alla volta della Repubblica Democratica del Congo, sfidando la paura di incontrare i ribelli e protetti dalle vaccinazioni contro la febbre gialla, il colera, il tifo, l’epatite e con in tasca la profilassi antimalarica.

IL VIAGGIO

Eccomi quindi pronto alla partenza con il mio bagaglio carico di tanta buona volontà ma anche pesantemente  pieno di paura. Ma che fare con la paura?

Il fascino del misterioso continente africano ed il classico “mal d’Africa” dovuto a mie precedenti esperienze in Mozambico e Zimbawe, dovrebbero attirarmi e rendermi curioso, quasi felice di fare nuove esperienze, ma le notizie lette sui giornali e quelle rivelatemi da suor Delia, mi spingevano a frenare il mio entusiasmo ed a camminare con i piedi per terra. Più di una persona da me interpellata non se l’è sentita di condividere con noi questa esperienza nelle zone del Kivu, tristemente famose per i ribelli, i genocidi, le violenze, gli stupri, la fame, la carestia, la paura. Eh sì! Proprio la paura era il mio bagaglio più pesante ed alla Malpensa non me l’hanno nemmeno sequestrato!

Ci imbarchiamo comunque, io e Dunia, su un aereo della Ethiopia Airline ed affrontiamo con rassegnazione le sette ore di volo.

L’aereo proviene da Bruxelle ed è già pieno. Anche i nostri posti sono occupati da una “mama”  mingherlina che sta comodamente sdraiata sui nostri due sedili e riusciamo a sederci solo dopo l’intervento del personale di bordo. I posti sono stretti e sia io che Dunia fatichiamo non poco per trovare una posizione decente. Quando finalmente mi stavo appisolando si riaccendono tutte le luci e dall’altoparlante escono delle parole incomprensibili che annunciano la distribuzione della cena. Era quasi mezzanotte, mi stavo addormentando e mi svegliano per darmi del cibo che nemmeno conosco! Il bello è che noi avevamo già cenato prima di salire sull’aereo! Con fatica ritrovo la posizione ma non riesco più ad addormentarmi. Nella penombra osservo le persone che mi circondano. Nel sedile dietro di noi ci sono due ragazze italiane e mi domando cosa ci vanno a fare in Africa due ragazze così giovani e sole! Davanti e di fianco ci sono donne di colore  tutte truccate e fasciate  nei loro sgargianti vestiti colorati. Le giovani hostess con il loro passo felpato girano nei corridoi avvolte nei costumi tradizionali dell’Etiopia. Rimangono in piedi tutta la notte a sorvegliare chi dorme o a sorridere a chi non riesce a chiudere occhio come me.

All’annuncio dell’imminente arrivo ad Addis Abeba incomincio a cercare la parte inferiore dei miei pantaloni. Indosso i pantaloncini corti di un combinato e siccome mi hanno detto che ad Addis Abeba fa freddo cerco di vestirmi adeguatamente.

Attaccato il pezzo di sinistra, cerco la parte destra ma non la trovo. Guardo nella borsa, sotto il sedile, nella cappelliera ma niente. Vedo le signore di colore che se la ridono beatamente e guardandomi in giro per vedere se ridono tutti, mi accorgo che la seconda parte dei miei pantaloni giaceva nel bel mezzo del corridoio a diversi metri di distanza dalla mia poltrona. Immaginatevi che figura! Mi alzo e con una braga lunga ed una corta percorro, come sulla passerella di una sfilata di moda, tutto il corridoio dell’aereo per recuperare la mia seconda gamba!

Ad Addis Abeba dobbiamo cambiare aereo e prenderne uno diretto a Bujumbura via Kigali, capitale del Rwanda.

Quando scendiamo dall’aereo piove e fa freddo. Addis Abeba è posto a circa 3000 metri di altitudine. Noi dobbiamo andare al terminal 2 ed un addetto dell’aeroporto ci inquadra, come degli scolaretti, in un sottoscala in attesa di un pulman che ci porti al terminal 2.

Nella sala d’attesa aspettiamo circa tre ore e nel frattempo facciamo colazione e sperimentiamo il nostro inglese e francese. Io ordino un toast ed un the ma mi portano un the con pane e marmellata. Si vede che devo ancora perfezionare la mia lingua. Siamo molto stanchi e Dunia si addormenta sulla sedia. A me tremano le gambe e mi sembra di essere ancora sull’aereo.

Quando andiamo all’imbarco ci cambiano il posto sull’aereo. Sono molto gentili e sorridenti e ci assegnano due poltrone nella quarta fila. Mi stupisco perché generalmente la quarta fila è nella businnes class mentre noi abbiamo il biglietto per la classe economica. Arriviamo veramente nella businnes class ed allora penso che dobbiamo ringraziare il visto della Santa Sede che abbiamo sul passaporto.

Ci accolgono con fragole e champagne e con tutte le comodità e specialità culinarie possibili. Peccato che l’ampio sorriso della hostess si  sia subito spento, lasciando sul suo bel volto,  tipicamente etiopico, una espressione di sorpresa e meraviglia quando abbiamo rifiutato lo champagne e gli ottimi vini che accompagnavano il pranzo. Ma come, due italiani che non bevono vino?

La difficoltà della lingua mi ha impedito di spiegare il motivo della nostra visita in Africa, altrimenti mi sarei soffermato volentieri sulle qualità cancerogeno del vino e sui rischi che si corrono bevendo anche un solo bicchiere di vino al giorno.

Ma andiamo avanti.

A BUJUMBURA

 Atterrati a Bujumbura un poliziotto voleva sequestrarmi la macchina fotografica per aver fatto una foto all’aereo che mi aveva portato comodamente in Burundi.

Nemmeno in questa occasione non so chi ringraziare in quanto invece di sequestrarmi la macchina fotografica, come fanno normalmente, mi ha fatto cancellare solo l’ultima foto.

Nel frattempo Dunia era tornata indietro perché un passeggero l’aveva avvertita che “suo marito” era stato fermato dalla Polizia. Per fortuna è andata bene.

Alla dogana altri problemi: non volevano farmi passare ma non capivo cosa voleva quest’altro poliziotto. Vedevo dall’altra parte del vetro suor Delia e suor Maria che si sbracciavano per salutarci, almeno venissero ad aiutarci. Finalmente un altro passeggero mi fa capire che dovevo riempiere il modulo d’ingresso in Burundi. L’agitazione e la fretta di abbracciare le  nostre due fans che continuavano a sbracciarsi mi hanno fatto perdere la tramontana e non capivo più niente. Ma in aiuto ecco arrivare suor Delia che con le sue conoscenze era riuscita a passare con i dovuti permessi.

Alla fine di tutte le formalità eccoci finalmente fuori dall’aeroporto che abbracciamo l’altra fan, suor Maria, ed a bordo della Land Rover ci dirigiamo verso la casa delle missionarie saveriane di Bujumbura.

All’uscita del parcheggio dell’aeroporto un’enorme cartellone ci da il benvenuto in Burundi e ci invita a festeggiare l’avvenimento con una Birra Primus. La pubblicità della birra Primus ci accompagnerà per tutto il nostro viaggio sia in Burundi che nella R.D. del Congo che in Rwanda.

L’accoglienza di suor Delia e di tutte le sue consorelle mi ha lasciato stupito. Dopo un po’ mi sembrava di essere a casa mia e di conoscere tutti da sempre, anche le fastidiose zanzare che la notte sono venute numerose a darmi il loro benvenuto ed a ricordarmi che ero arrivato in Africa.

Dunia ed io siamo alloggiati in una casetta a fianco del convento, proprio difronte agli uffici della parrocchia. Tutto il convento e le case parrocchiali sono circondate da un  muro che le separa dalle casupole fatiscenti degli indigeni.

Dentro le mura verde, fiori, alberi da frutto, serenità, pace, oltre il muro sporcizia, polvere, immondizie, pozzanghere di acqua putrida culle di sciami di zanzare, fame, paura…

Mentre stiamo chiacchierando con suor Delia comodamente seduti all’esterno della nostra casetta, arriva una bambina di circa due anni che si fa prendere in braccio. E’ tutta ricciolina e molto carina e sembra non aver paura dell’uomo bianco. Dopo un po’ arrivano di corsa quattro o cinque ragazzine mandate alla ricerca della piccola. Facciamo una foto tutti assieme e per me è un bellissimo ricordo perché è la prima foto fatta con un gruppo di sorridenti e graziose ragazzine africane: in Africa non ci sono solo ribelli, guerriglieri e banditi!

Facciamo conoscenza anche con alcuni missionari che lavorano nella Parrocchia e nell’oratorio e ci invitano alla Messa dell’indomani.

E’ ancora buio quando una scarica di campane registrate su un disco mi sveglia, riportandomi dal sogno alla realtà. Chiamano alla Messa: ma chi vuoi che vada in chiesa a quest’ora, mi chiesi quasi stizzito per il brusco risveglio.

Invece, con mia grande meraviglia, la chiesa era gremita di fedeli, grandi e piccini, uomini e donne, altro che in Italia! E che devozione! Mi sembrava di essere ritornato ai tempi di quand’ero chierichetto! Mi sentivo felice, in quella chiesa, quasi protetto da tutti quei fedeli, ed anche la paura aveva alleggerito la presa.

Ma era un alleggerimento momentaneo perché appena intrapreso il viaggio verso Bukavu ecco che comparve di nuovo.

La via più breve per raggiungere Bukavu, nostra meta, è atterrare a Bujumbura nel Burundi e poi, attraversata la frontiera con la R.D. del Congo, percorrere ancora circa 150 chilometri di strade sterrate e piene di buche.

VERSO BUKAVU

Non vi dico del viaggio! La mia tensione era tale che vedevo in tutte le persone dei potenziali ribelli. Anche le povere donne che camminavano lungo la pista, schiacciate dai pesanti carichi di carbone, potevano nascondere nei loro sacchi i micidiali kalashnikov. Dietro ad ogni curva del passo Escarpeman mi aspettavo di trovare un gruppo di uomini armati pronti a sequestrarci per richiedere un  riscatto al povero  governo italiano.

L’Escarpeman! Un passo alpino solcato da una strada stretta, sterrata e polverosa che non conosce paracarri e men che meno guard rail. Se una buca un po’ più grande ti butta fuori strada ti ritrovi direttamente in fondo alla valle, tra le fauci dei coccodrilli che popolano il fiume Rusizi che fa da confine tra la R.D.C ed il Rwanda.

Quando un mezzo più veloce riesce a superarti per un po’ non vedi più niente, solo polvere e ancora polvere.

Alcune camionette di soldati ci sorpassano e poi le ritroviamo ferme un po’ più avanti. Che stiano aspettando noi? Saranno le milizie ribelli? Suor Delia suona il clacson e li saluta con la mano ricevendo anche un saluto in cambio! Meno male, non erano ribelli!

Lungo la strada incontriamo molte donne cariche di ogni merce: legna, carbone, manioca, banane, taniche di acqua, benzina, kagnanga.

La loro situazione è descritta molto bene da Serena Grassia in un suo articolo “UNA GIORNATA CON LE “BABEZA MIZIGO” DI BUKAVU, FINO AL TRAMONTO SOTTO CENTO CHILI” riportato qui:  http://www.atlasweb.it/2012/07/18/una-giornata-con-le-%E2%80%9Cbabeza-mizigo%E2%80%9D-di-bukavu-dallalba-al-tramonto-sotto-carichi-di-cento-chili-579.html

“Alle sei del mattino il sole sorge pigramente su Bukavu, il capoluogo del Sud Kivu, in Congo, e sulla terra rossa ancora umida inizia il calpestio delle donne che avviano la giornata. Molte sono vedove, altre hanno i mariti a casa, tutte hanno figli da sfamare e per questo lavorano duramente. Si alzano all’alba per andare a prendere il carbone o l’acqua, trascinano carichi fino a 100 chilogrammi, per sé o per le famiglie benestanti, e non hanno altra scelta. I francesi le chiamano “transporteuses”, in Kiswahili sono le “babeba mizigo”, per noi sono le “trasportatrici” e svolgono lo stesso lavoro che in altri posti del mondo spetta ai cavalli o agli asini.

Cavalli, asini e camion sono troppo costosi, le strade sono talmente dissestate che non sarebbe possibile percorrerle con un mezzo diverso dai piedi, e così le donne si sono inventate un lavoro, quello di trasportare i carichi pesanti, dalla manioca alle banane, dalla canna da zucchero al carbone, dalla sabbia alla legna da ardere. Ogni donna trasporta centinaia di chilogrammi di merci a settimana. Non ci sono pause per i pasti o valutazioni sulla salute o la sicurezza, nessuna di loro si lamenta per la stanchezza, ma tutte abbozzano un sorriso quando incassano 1 o 2 dollari a fine giornata per sfamare i figli. Il prezzo sufficiente per un po’ di farina o di riso.

In questa regione la guerra ha distrutto l’industria e l’agricoltura, per cui il cibo viene prodotto altrove e per questo deve essere trasportato, ma per questo costa anche di più. E’ stata la guerra che ha cambiato la forma della società. Prima le donne si occupavano della casa e della famiglia, dei figli e delle cucina, poi dagli anni novanta a oggi quattro, cinque milioni di persone sono morte nel sangue, nella fame o nelle malattie, molti uomini sono scomparsi, e le donne per sopravvivere hanno preso a lavorare, senza mai più smettere.”

Ti rattrista il cuore a leggere questo articolo immaginatevi a vedere in realtà la fatica dipinta sul volto di quelle donne. Ne abbiamo incrociata una con mezza mucca appena macellata sulla schiena. Era piccolina, magrolina, curva sotto il pesante fardello ma il suo passo era fermo e deciso, non barcollante o traballante. Il suo volto era solcato da mille rughe ed il sudore scivolava lento sulla sua fronte impolverata. Nell’incrociarci ha alzato un attimo lo sguardo come per chiederci di andare piano e di non farle mangiare altra polvere.

Non potete immaginarvi la gioia quando finalmente, dopo sei lunghe e faticose ore di quell’estenuante cavalcata con il fuoristrada, arriviamo in vista della nostra meta. Ma la gioia si trasforma presto in angoscia e costernazione  nel vedere l’inferno di Bukavu.

Bukavu si estende delicatamente come una mano a sud del lago Kivu. Le dita estese e leggermente allargate vanno a posarsi sull’acqua. Poi colline che salgono dolci come il dorso di una mano e su

su fino alla montagna. Il polso esteso. C’est Bukavu la belle. Bukavu la belle è diventata con la guerra Bukavu la poubelle (la pattumiera) con un’infinità di rifiuti in ogni dove. (da: http://www.unimondo.org/Notizie/Anch-io-a-Bukavu-136699)    

Miseria e polvere; macchine e polvere; motorette e polvere; soldati e polvere; baracche e polvere; camion e polvere; bambini e polvere; mosche e polvere; quarti di capretto e polvere; mosche e polvere; pesci e polvere; manioca e polvere; rifiuti e polvere, ratti e polvere; ribelli e paura!

Un formicaio di esseri umani che cerca invano pane e pace, immerso nella polvere, invaso da mosche, zanzare e ratti. Ecco Bukavu la bella, diventata ora Bukavu la pattumiera!

FINALMENTE A BUKAVU.- Finalmente giungiamo nella casa reginale delle missionarie di Bukavu, un’oasi di pace avvolta nel verde dei giardini, profumata da un’infinità di fiori, adagiata sul dolce fianco di una collina che bagna i suoi piedi nel lago Kivu.  Il  cancello in ferro che la separa dal resto della città, rinchiude come in uno scrigno quella pietra preziosa di pace e serenità.

Anche qui veniamo accolti dalle braccia aperte di suor Teresina della Sardegna, di suor Teresina della bergamasca, di suor Elisa del Messico e di suor Lucia.

La stanza con bagno che mi assegnano da direttamente sul giardino ed è munita di zanzariera e protetta da sbarre alle finestre ed da una porta di ferro.

Ma né le sbarre alle finestre e la porta di ferro, né il  cancello e le  mura di cinta non riescono a tenere lontano la mia paura e la prima notte la trascorro ascoltando i passi felpati del guardiano notturno  ed aspettando quelli fugaci e veloci dei ribelli. Alle 5,00 finalmente qualcuno deve averli avvistati. Da un altoparlante una voce dà l’allarme con un canto che assomiglia molto alla chiamata del muezzin alla preghiera islamica. Che fare? Scappare? Ma dove? Non so nemmeno dove sono! Accendo la luce ma non c’è: hanno già tagliato i cavi! Mi tiro le coperte fin sopra i miei pochi e dritti capelli ed aspetto lo strepitio delle armi. Dopo un po’ sento suonare le campane delle chiese cristiane, ma allora… quello di prima non era un allarme, era veramente la chiamata alla preghiera dei muezzin.

Saprò poi che i caschi blu pakistani hanno un accampamento un po’ più in giù di noi, proprio in riva al lago e un altro a fianco a noi, a un centinaio di metri in linea d’aria!

Meno male, questa notte è andata bene, i ribelli non sono venuti, …ma mancano ancora 17 notti!

Ormai è quasi giorno e quindi mi alzo, vado in bagno, apro il rubinetto per lavarmi ma… l’acqua non c’è. Sotto il lavandino intravedo un secchio pieno  ed imparo a farmi la barba e la doccia con un secchio di acqua piovana ed una brocca.

Mi spiegheranno poi che Bukavu era una cittadina di circa 200 mila abitanti, con una centrale elettrica efficiente ed una riserva di acqua appena sufficiente. Dopo la guerra è diventata un formicaio con due milioni di abitanti che ha ancora la stessa centrale elettrica e non ha più acqua a sufficienza per tutti. Sia la corrente che l’acqua vengono razionati  secondo turni prestabiliti ma il più delle volte mancano completamente.

Con nostra grande meraviglia non manca invece il pane bianco e suor Teresina ci accompagna per visitare il panificio. A dir la verità pensavo di entrare in una officina meccanica  in quanto nel cortile del panificio c’erano due ruderi di camion, gomme, pezzi di auto arrugginiti, bidoni di olio usato, macchie d’olio per terra,  ed invece era proprio l’anticamera della fabbrica del pane. Vi lascio immaginare come era il panificio e come facevano il pane. Gli operai indossavano tute blu da meccanico unte e bisunte, come erano unte e bisunte le mani che impastavano il pane. Altro che guanti, grembiuli e berretti bianchi! C’era solo una obsoleta macchina impastatrice, il resto veniva fatto tutto a mani nude! Una volta cotto, il pane veniva rovesciato… per terra e poi raccolto e messo in sacchetti di plastica e portato nei mercatini della città.

Ciò nonostante era buono ed abbiamo continuato a mangiarlo.

Nel convento c’era da alcuni giorni anche una sorella di un’altra congregazione per un periodo di riposo. Dopo pranzo suor Delia la deve riaccompagnare nel suo convento e ci invita ad andare con lei.

“Amani” in swahili significa “pace” ed è esattamente quello che abbiamo trovato e provato. Il Centro Cattolico Amani è situato sulla punta di una delle cinque penisole che entrano nel lago Kivu. Per arrivarci c’è un’unica strada che termina proprio al cancello del convento. Al di là del cancello c’è il paradiso terrestre. Viali, giardini, piante, fiori, palme, canneti, prati e soprattutto… pace!

“Pensare” racconta suor Delia, “che fino a poco tempo fa qui erano accampati i soldati e le suore dovevano preparare il cibo per tutti”.

La penisola di Amani si allunga nel lago fino a pochi metri dal confine con il Rwanda. Al di là del lago, nella provincia di Goma si sta combattendo ma chi ci va sempre di mezzo sono gli abitanti dei villaggi che devono scappare ed abbandonare tutto quello che hanno nelle mani dei guerriglieri.

Ecco cosa scrive Fabio Pipinato, inviato di Unimondo in Kivu venerdì 31 agosto 2012 a proposito della situazione di Goma

 “Mentre scrivo c’è stata una battaglia poco lontano dalla cittá di Goma. Centinaia di morti sul terreno. La Croce Rossa che ha sede nel mio stesso alloggio è partita alle 4 del mattino. Non posso unirmi a loro perché se c’è una cosa che accomuna le parti in conflitto sono i giornalisti. Se vedono un block notes o una macchina fotografica contraccambiano con un proiettile in fronte….checchè ne dicano le Convenzioni di Ginevra.

Risultato dell’ennesima battaglia: sul terreno vi sono soltanto civili. Né ribelli dell’M23 e né soldati governativi. Solo civili. Rei di esser nati su una terra che vomita lava dal vulcano ed oro dalla pianura. Naturalmente la colpa di quest’ennesima battaglia viene rimbalzata tra le parti avverse.”

http://www.unimondo.org/Notizie/Goma.-Pronti-alla-battaglia-finale-136770

Verso sera suor Delia ci accompagna in una passeggiata in città. A piedi percorriamo alcune vie attorno alla loro casa. Nei tempi d’oro di “Bukavu la bella” quella zona doveva essere riservata ai ricchi. Infatti tra il filo spinato eretto sui muri di protezione si intravedono ville stile coniale ora in mano ad organizzazioni non Governative. C’erano pure delle case in costruzione ma, mi faceva notare suor Delia, erano completamente prive di fognature e la fossa biologica veniva costruita in cantina. Ad un incrocio incontriamo un gruppo di cambia valute amici di suor Delia. Uno di loro sta sorseggiando una birra in bottiglia e Dunia scherzosamente lo richiama spiegandogli che la birra contiene alcol e l’alcol fa male alla salute. Ne nasce una interessante e vivace discussione tanto che attorno a noi si forma un nugolo di persone molto curiose e interessate all’argomento. Tutti ci pongono delle domande ma per tutti è impossibile vivere senza bere alcolici. E’ stata una bellissima scuola alcologica territoriale. Ci siamo lasciati al grido di “pila pombe” che tradotto significa “senza alcol”.

LA PRIGIONE DI BUKAVU. – Alla domenica mattina suor Delia vuole portarci nel carcere principale di Bukavu per assistere alla S. Messa. Con tutte  le chiese, chiesette e  cappelle che ci sono a Bukavu, proprio in carcere mi vuole portare.  Non bastano i ribelli, le zanzare, la mancanza di luce e di acqua, la polvere, le buche nelle strade, il traffico caotico, ecc., anche in carcere dovevo andare! Il mio lavoro mi ha portato sovente a contatto con le carceri italiane e solo il pensiero di ritornare tra i detenuti non mi attirava molto.

Comunque ha vinto suor Delia e mi sono trovato… in una stanza buia e maleodorante circondato da volti che mi fissavano minacciosamente. C’era tutta la peggior gente del circondario: assassini, stupratori, ladri, ribelli, truffatori, vagabondi, tutti davanti all’altare sul quale poco dopo sarebbe sceso Gesù. Possibile che Lui scenda anche in ambienti come questi? Qui non c’è pace, non c’è giustizia, non c’è dignità, non c’è rispetto, non c’è amore,  non c’è sicurezza! Poi mi ricordo che Gesù è morto sulla croce per salvare tutti, ed il primo a seguirlo in Paradiso è stato proprio il buon ladrone!

Il tam tam dei tamburi mi riporta alla realtà. E’ iniziata la Messa. Tutti cantano e ballano ed i miei occhi incuriositi scrutano i volti sereni dei presenti: in fondo non sono cattivi se cantano e ballano in nome del Signore! Chissà quanta sofferenza nei loro cuori e nei cuori dei loro familiari. Alla pace  tutti vorrebbero stringere le nostre mani bianche ma io vedendo tutte quelle mani nere tese verso di me, quasi mi spavento: chissà chi avrà ucciso questa mano… e quest’altra, cosa avrà fatto?

La mia paura mi ha seguito anche in carcere!

Dopo Messa un giovane dottore detenuto perché accusato di aver procurato l’aborto ad una ragazza poi deceduta, vuole farci visitare tutto il carcere. Quando capisco la sua intenzione è ormai troppo tardi e mi ritrovo già chiuso in un gruppetto di detenuti  pronti per la visita.

L’edificio è una vecchia fortezza coloniale circondata da alte mura. E’ situato nel centro della città ed è diviso in tre settori: uomini, minorenni e donne con i loro bambini. In questi giorni vi sono rinchiuse 1492 persone.

Noi visitiamo il reparto uomini che consiste in un ampio cortile ed alcuni cameroni senza luce, umidi e sporchi. Solo in uno ci sono delle brande a castello, riservate a chi può pagare una tangente ai capi mafia, mentre negli altri dormono per terra. All’ingresso dei cameroni, neanche tanto appartati, ci sono dei buchi nel pavimento che fungono da gabinetti. Periodicamente vengono svuotati dagli ultimi arrivati o da chi non gode di particolari protezioni. Da notare che nel carcere non ci sono appositi attrezzi!

Un vano con il pavimento in terra battuta senza porte nè finestre funge da cucina. Su alcuni sassi sono posti due marmittoni e sotto due fuochi cercano di riscaldare dei fagioli e dell’acqua per cuocere la polenta di manioca. Lo Stato fornisce un sacco di fagioli e di farina al mese. Chi non riceve cibo dai  parenti soffre la fame. Anche la Caritas ed altre Ong, quando possono, contribuiscono a sfamare i detenuti.

Nel cortile i prigionieri passeggiamo, giocano al pallone, mangiano, fanno il bucato, discutono, ricevono i parenti. C’è pure un mercatino dove vendono frutta, sigarette, bevande e altre mercanzie. La notte, che dura 12 ore, vengono tutti rinchiusi nei tre cameroni: un migliaio di persone con dei secchi per i loro bisogni. I gabinetti sono fuori, oltre le sbarre dei cameroni! Il dottore ci porta a riverire il capo dei prigionieri: ha un ufficio ed una stanza tutta sua. E’ lui che comanda su tutti, è lui che decide della tua vita o della tua morte!

Quando esco sono felice di essere  un uomo libero!

Non riesco ad immaginarmi prigioniero in quell’inferno, non riuscirei a sopravvivere nemmeno un giorno. Eppure anche quei poveri disgraziati sono uomini come me, anche loro hanno un cuore, dei sentimenti, dei ricordi, delle emozioni. Non so come fanno a sopravvivere!

IL CORSO DI SENSIBILIZZAZIONE – La domenica pomeriggio ci trasferiamo nel quartiere di Panzi, in una scuola dei padri saveriani, dove faremo il corso di sensibilizzazione. I Padri hanno scavato un pozzo per l’acqua ed hanno pannelli solari per la luce. Speriamo così di poter usare il proiettore e farci una doccia come si deve.

Siamo in cima ad una collina e dal fondo della valle salgono per tutto il giorno e per tutta la notte  i rumori assordanti della baraccopoli: muezzin che invitano alla preghiera, tam, tam di  tamburi, strilli di bambini, urla delle mamme, latrare di cani, musica a tutto volume, clacson impazziti! Sembra di trovarsi nel paradiso dantesco con i rumori che salgono, come nebbie sospinte dal vento, dai gironi dell’inferno.

Eppure il posto è magnifico! Le magnolie ed una infinità di altre piante fiorite non riescono però a nascondere le tante piaghe che infestano il Congo.

Durante il Corso scopriamo che c’è anche un’altra piaga molto grossa che sta distruggendo le famiglie sopravvissute alla guerra: l’alcol!

Eppure nella classifica delle nazioni pubblicata dalla World Health Organization in base al consumo di alcool,  la Repubblica Democratica del Congo si trova al 134 esimo posto con un consumo pro capite annuale di 3,3  litri di alcol puro.

Anche da questa statistica si capisce che in Congo nulla funziona regolarmente.
Ma il dato è probabilmente sottostimato perchè non tiene conto della produzione clandestina di Kagnanka, un superalcolico che assieme alla birra di banane è la bevanda più consumata in Africa. Praticamente qui bevono solo bevande clandestine.

La domenica sera siamo già tutti pronti per iniziare l’indomani il nostro viaggio all’interno del pensiero hudoliniano.

Al corso arrivano 37 persone, 7 in più degli iscritti. Suor Elisa manager tuttofare deve correre a destra e sinistra per cercare materassi e sistemare tutti per bene. Io sono alloggiato nella camera del Vescovo, così mi dice suor Delia, ma non so se essere lusingato o spaventato. Gli alti prelati hanno grosse responsabilità e molte volte non sono ben visti dai governanti! Gli ultimi tre vescovi hanno fatto una brutta fine! Come farò io, che non conosco la lingua, a spiegare ai guerriglieri che non sono un vescovo?

Ma ritorniamo al corso. E’ un corso residenziale ed i partecipanti provengono dalle province di Bukavu, Goma ed Uvira. Alcuni hanno impiegato anche 4 giorni di viaggio per raggiungere la sede del corso, viaggiando un po’ a piedi ed un po’ a bordo di mezzi di fortuna, coprendo anche distanze di 360 chilometri su strade polverose e dissestate e dormendo sotto le stelle.

Tra le sette donne ed i trenta uomini ci sono insegnanti, contadini, medici, infermieri, sacerdoti, direttori e presidi di scuole primarie e secondarie. Alcuni di loro sono già membri di Club aperti da suor Delia nei villaggi di Mbobero e Luwungi.

Tutti i partecipanti erano molto motivati e ci tenevano a frequentare il corso. Li vedevo molto attenti, interagivano e rispondevano bene alle provocazioni. Il terreno era molto fertile e suor Delia lo aveva preparato alla perfezione. Non abbiamo faticato molto per trasmettere ai corsisti i concetti fondamentali della metodologia  ideata dal professor Vladimir Hudolin ed a provocare in loro un cambiamento personale nei confronti delle bevande alcoliche.

Il corso, oltre a delle lezioni frontali, prevede anche incontri di discussione e scambio di esperienze con lo scopo di far riflettere i corsisti sui propri comportamenti ed invitarli ad una scelta personale consapevole nei confronti delle bevande alcoliche.

Il clima empatico e amichevole che si è subito creato ha facilitato le interazioni, tanto che già al martedì mattina durante la lezione sui problemi provocati dal consumo di bevande alcoliche, due signore sono scoppiate in lacrime urlando il loro dolore e la loro sofferenza di mogli tradite, picchiate, violentate da mariti in preda ai fumi dell’alcol.

Oltre alle guerra, le malattie, la fame ci si mette pure l’alcol a rovinare le famiglie ed a portare ancora sofferenza là dove ce ne sarebbe da vendere!

Nulla da stupirsi se le donne del corso sono scoppiate in lacrime raccontando la loro misera sopravvivenza. Non ne potevano più di inghiottire, nascondere, sopportare. Quello era il luogo dove finalmente potevano squarciare la diga della sopportazione ed inondare tutti con il loro dolore e la loro sofferenza.

Molti uomini presenti sono stati colpiti da quell’onda di piena improvvisa ed i loro cuori si sono inteneriti. Le lacrime di quelle donne erano le lacrime delle loro mogli, dei loro bambini: non potevano rimanere indifferenti e continuare a preferire l’alcol all’amore di una famiglia.

Patrick il giornalista, un esempio per tutti. Giovedì mattina ci confida di aver pensato tutta la notte alla sua vita passata, alle botte date alla moglie incinta, agli anni persi in Ruanda per cercare nuove avventure, agli occhi spaventati dei suoi figli, a quelli rassegnati della moglie. Decide di chiedere perdono alla sua famiglia e di ricominciare una nuova vita senza “ kagnanka” (superalcolico distillato illegalmente). E’ così contento della sua decisione che vorrebbe una chitarra per cantare a tutti la sua FURAHA (gioia). La trova e nel tempo libero ci tiene compagnia  con le sue canzoni che raccontano il suo passato ed il suo futuro.

Alla fine del corso, nel 90% dei lavori scritti presentati dai corsisti c’erano chiari segni di un cambiamento personale e fermi propositi di frequentare o aprire un club.

Il corso è andato oltre le nostre aspettative ma sarà la nascita di nuovi club a determinare il risultato positivo della nostra sensibilizzazione.

La giornata tipo del corso iniziava con la sveglia alle 05,30. Alle 6,10 c’era la santa messa animata dai canti tradizionali africani che difficilmente dimenticherò. Ogni volta che ascoltavo un canto mi si riempivano gli occhi di lacrime. Alle sette c’era la colazione e poi fino alle 8,30 pulizie delle camere e degli ambienti comuni.  Dalle 8,30 alle 12,15 corso, dalle 12,15 alle 15.00 pausa pranzo e dalle 15.00 alle 18.00 ancora corso. Alle 19.00 c’era la cena e poi fino alle 20,30/21.00 c’era la così detta “ricreazione”. Una sera abbiamo guardato delle diapositive delle Dolomiti, un’altra sera abbiamo organizzato una lotteria, per due sere abbiamo simulato il club, una sera c’è stata una rappresentazione teatrale ed un’altra ancora abbiamo cantato e danzato tutti insieme.

Al sabato è stata dura salutarci. Probabilmente con molti non ci rivedremo mai più ma sono convinto che l’insegnamento di Hudolin lo ricorderanno per tutta la vita.

LE VISITE AI CLUB – La domenica mattina siamo andati a visitare il club di Mbobero, un caratteristico villaggio alla periferia di Bukavu, sommerso dalle colorate bouganville  ed adagiato sui fianchi di una dolce collina foderata di dorati bananeti. Ed è proprio con le banane che gli indigeni fabbricano la birra, fonte di guadagno ma nel medesimo tempo anche fonte di sofferenza per tante famiglie. E questo è un grande dilemma perché la povertà è immensa e togliere una fonte di guadagno sicura significa non avere più i soldi per mandare a scuola i bambini. Nella R.D.C. chi vuole andare a scuola deve pagare i libri e gli insegnanti,  altrimenti rimane a casa. D’altro canto continuare a produrre birra di banane significa incrementare la povertà, la sofferenza  e la violenza.

Che fare?

Alcune persone che frequentano il club hanno deciso di non fabbricare più la birra ed hanno trovato altri modi per sostenere la famiglia, altre invece continuano a vendere la birra pur non facendone più uso.

Numerose famiglie erano venute ad ascoltare i due italiani. Dalla mia sedia vedevo tanti grandi occhi lucidi che mi guardavano ed aspettavano le mie parole. Come mi vedranno, pensavo, forse come uno stregone pronto a elargire una pozione magica? Suor Delia ci aveva avvisati di usare parole molto semplici  e facili da capire, usando se possibile, anche degli esempi. Incominciai quindi a spiegare il percorso dell’alcol nel nostro corpo paragonandolo a tante bestioline  che entrano nella nostra bocca, scendono nello stomaco ed attraverso il sangue arrivano nel cervello mangiandosi tutto quello che incontrano sul loro percorso. Ad un tratto mi accorsi che molte persone mi stavano guardando con occhi terrorizzati e bocche spalancate; qualcuno, pur nascosto dal colore, stava sbiancando in volto e le mamme stringevano al petto i loro bambini come a proteggerli da quelle bestioline.

Speriamo che tutta quella paura li aiuti a rimanere lontani dalle bevande alcoliche, pensai.

Nella loro immensa povertà ci offrirono un pezzo di pane bianco, una decina di noccioline ed una bottiglia di aranciata. Condividiamo il tutto con tutti quelli che erano rimasti senza.

IL RITORNO NELLA PRIGIONE – Un’avventura straordinaria che mi ha fatto rivivere suor Delia è stato il ritorno nel carcere di Bukavu.  Non è che ci tenessi particolarmente a ritornarvi, ma lei ha iniziato un percorso sull’alcol con i carcerati e voleva che andassimo anche noi per parlare della nostra esperienza. Che emozione! Questa volta nel cortile stavano giocando a pallone. Due squadre stavano disputando il campionato della prigione vestite con tanto di magliette e pantaloncini di ordinanza. Il tifo era alle stelle ed avevo quasi paura ad entrare in quella bolgia nella bolgia!

L’incontro lo abbiamo fatto nella stessa sala buia e puzzolente dotata di poche panchine e sedie traballanti nella quale avevamo assisto alla santa messa.

Nessuno li ha spinti a partecipare al nostro incontro, ciò nonostante più di cento detenuti ci hanno tenuti per tre ore ostaggi delle loro domande, la maggior parte di loro seduti per terra. Il club li ha colpiti ed incuriositi in modo particolare. Possibile che ci sia un metodo che ti aiuti a non bere? Possibile che si possa vivere anche senza pombe? (alcol) Alcuni mettevano in forse la nostra astinenza: era impossibile vivere senza pombe, come era impossibile che Dunia non avesse un uomo!

Il racconto delle mie esperienze personali hanno scalfito il cuore dei presenti ed acceso la speranza in una vita migliore: “dall’alcolismo si può uscire, io ce l’ho fatta, anche tu puoi farcela!“

Eravamo riusciti a creare un clima empatico anche in carcere tanto che anche loro incominciavano a raccontare le loro tristi esperienze. Tantissimi dei presenti erano in carcere proprio perché avevano commesso dei reati in stato di ubriachezza: omicidi, violenze sessuali, risse, incidenti stradali.

A fatica siamo riusciti ad andarsene attraversando il cortile tra due ali di folla che con le loro mani protese cercavano di stringere le nostre mani.

SULLA VIA DEL RITORNO – Ormai i nostri giorni in Africa stavano per finire. Il distacco dalle mie sorelle è stato molto triste.

Molte volte mi sono chiesto cosa facessero degli angeli bianchi in un simile inferno nero, ma ora forse ho capito che il loro umile e silenzioso lavoro rende meno dura e pesante la vita di chi ha la fortuna di incontrarle sulla loro strada.

Con tutte  loro mi sono trovato come in famiglia. Sia a Bukavu che a Luvungi, che a Uvira, che a Bujumbura ci hanno accolti a braccia aperte ed hanno condiviso con noi il meglio di ciò che avevano.

Un sincero grazie a Delia, Teresina, Elisa, Teresina, Franca, Lucia, Maria, Bernardetta, Francine, Bambina, Rina, Genoveffa, Mercedes, Giovanna, Gemma, Annick, Anna Maria, Alliance, Hélène, Berthe.

Nel ritorno verso l’aeroporto di Bujumbura passiamo dal Rwanda per evitare di rifare il passo dell’Escarpeman.

Le guardie rwandesi vorrebbero aprirci le valigie e perquisirci la macchina, ma suor Delia riesce con una scusa a deviare le loro intenzioni.  Proibito anche fotografare, così non ho potuto immortalare il caratteristico paesaggio rwandese, la verde valle del te, le sue dolci colline coltivate a banane, le sue strade asfaltate, i suoi villaggi dai tetti di banda luccicante, (in Rwanda è proibito costruire capanne con il tetto di paglia e camminare con gli infradito).

Alla frontiera in uscita dal Rwanda va molto meglio. Suor Delia conosce i poliziotti e distribuisce rosari a tutti. I sussulti della Land Rover Defender  ci confermano che siamo rientrati nella Repubblica Democratica del Congo.

Attraversando il grosso villaggio di Kamanyola si notano ancora i segni dei disordini dei giorni scorsi. Gli abitanti del villaggio esasperati dall’immobilità dell’esercito congolese e dai continui assalti dei ribelli hanno chiuso le strade e bloccato il traffico con tronchi d’albero, sassi e gomme incendiate. La tensione è forte e non si sa fino a quando il popolo riuscirà a resistere.

A Luvungi ci fermiamo due notti. E’ una zona calda. Nell’ottobre dell’anno scorso la missione è stata oggetto di un assalto dei ribelli e non sono molto tranquillo, anche se le Sorelle Saveriane ripetono che siamo nelle mani del Signore.

Durante il nostro soggiorno visitiamo il club che è composto da diverse famiglie e per l’occasione sono presenti anche numerosi bambini.  Nella loro dignitosa povertà indossano tutti il vestito bello ed un sorriso di circostanza. I problemi sono tanti e grossi però s’intravedono barlumi di speranza in una vita migliore. Una anziana signora ad un certo punto si alza dalla panca ed accenna ad una danza. E’ felice perché da quando suo marito è ritornato dal corso di sensibilizzazione non ha più bevuto. E’ la prima volta nella sua vita che vede suo marito sobrio e stenta a riconoscerlo.  Anche le altre donne confermano che i loro mariti cambiano quando non bevono, diventano più buoni ed affettuosi, quasi irriconoscibili.

Una ragazzina con gli occhi lucidi ci confessa che anche  il suo papà quando non beve è più buono e persino gioca con lei. Le chiedo allora di dimostragli la sua gioia con un bacio ma lei si schernisce e mi guarda spaventata ed intimorita: non aveva mai dato un bacio a suo padre, non fanno parte della cultura locale le dimostrazioni di affetto.

Al termine del club vogliono regalarci una bacinella di pomodori ed un gallo vivo, così, dicono, ogni volta che sentirete cantare un gallo vi ricorderete di noi.  Vista la situazione di povertà in cui vivono mi vergogno ad accettare un così prezioso regalo ma la Sorella vicina a me mi suggerisce di accettare e di dire due parole di ringraziamento.  Prendo quindi il gallo tra le mani ma non so come tenerlo. Lo giro e rigiro come un pallone ed ho paura che mi lasci qualche ricordo sulla camicia. Suor Mercedes si accorge della mia inesperienza e se lo prende in braccio lei. Saprò più tardi che suor Mercedes era famosa tra le consorelle di tutto il Congo per aver  paura di tutti i volatili: pensate, si è sacrificata per me!

L’indomani partiamo per il Burundi passando prima per  Uvira sul lago Tanganica. Là andiamo a salutare il Vicario del Vescovo che ci riceve subito e ci ringrazia di essere venuti dall’Italia apposta per fare un corso sull’alcolismo e ci chiede di ritornare per farne un altro ad Uvira. Passiamo poi a visitare un dispensario per diabetici sostenuto dalle Missionarie Saveriane. E’ ben tenuto, pulito ed ordinato. La direttrice ci sorprende regalandoci delle borse di paglia confezionate in loco. Siamo noi ricchi a ricevere dei regali dai poveri!

Andiamo poi da suor Bambina che dirige un centro per disabili. Lei è occupata e suor Delia ci porta in cucina per bere un po’ d’acqua. Ci fa vedere la casa del noviziato e le palme con le noci di cocco. Suor Bambina ci raggiunge e visitiamo i padiglioni dei laboratori ed un salone dove stanno ingessando le gambe ad una bambina. Un’altra piccolina sta provando a camminare con una protesi alle gambe e mi viene un nodo in gola. Aspettiamo che ci confezionino dei rosari e poi andiamo verso il convento di Uvira. Ci apre il cancello suor Genoveffa e ci appare un giardino ben curato con una pagoda in mezzo ed una palma che assomiglia ad un ostensorio.

A mezzogiorno pranziamo dalle sorelle e poi ripartiamo alla volta di Bujumbura.

La strada costeggia tutto il lato nord del lago Tanganica che si estende verso sud per circa 650 chilometri. Più che un lago sembra un mare ed anche la temperatura è molto più calda che a Bukavu. Siamo ormai in vista della frontiera con il Burundi ma la polvere e le buche della strada ci costringono a viaggiare adagio ed il tempo non passa mai. Gli ultimi chilometri sono i più lunghi.

Quando attraversiamo la frontiera ed il ponte sul fiume Rusizi tiro un sospiro di sollievo: finalmente siamo fuori dalla Repubblica Democratica del Congo!

Ora la Land Rover viaggia spedita sul nastro d’asfalto. Anche il fastidio alla gola dovuto alla polvere sembra smorzarsi: in Burundi si respira un’aria migliore!

A Bujumbura ritroviamo le sorelle che ci avevano accolto all’inizio della nostra avventura. Sono trascorsi solo 17 giorni ma sembra sia passato un secolo!

Appena assegnate le stanze facciamo una bella doccia calda pensando alle docce fatte a Bukavu con un secchio ed una brocca.

Ora io sono più calmo e non ho più l’ansia per l’incognito futuro.

Trascorriamo le nostre ultime ore in terra africana chiacchierando tra di noi e preparando le valigie cariche di frutta tropicale.

Diamo uno sguardo anche sul futuro dell’Africa. Nella parrocchia accanto 4000 bambini stanno facendo il grest: giocano, cantano, ballano ed incominciano a conoscere il Vangelo. Padre Luigi Vitella responsabile del grest ci saluta riportando una frase di un educatore di cui mi sfugge il nome: “datemi un bambino dagli 0 ai 7 anni e poi ve lo lascio per il resto della vita”.

Dunia si tuffa tra i bambini ed improvvisando una danza tutta sua, crea uno scompiglio generale. Tutti vogliono vedere la “mama bianca” che balla! Gli assistenti del Grest a fatica riescono a riportare l’ordine. Dunia era riuscita a portare allegria e serenità anche tra quei bambini!

Veniamo a conoscenza che la gente di Kamagnola e di Sange ha di nuovo elevato barricate sulle strade. Siamo riusciti ad arrivare in Burundi appena in tempo.

Di questo e di tutto il viaggio dobbiamo proprio ringraziare il Signore.

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guido dellagiacoma in congo predazzo blog Reportage di Guido Dellagiacoma, in Congo da suor Delia per avviare lesperienza dei Club Alcolisti

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